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Albert King – Born Under A Bad Sign

born-under-a-bad-signSe ascoltando questo album per la prima volta vi sembrerà comunque familiare, è perché il blues denso, elettrico e tinto di soul sfoggiato da Albert King su questo suo secondo lavoro (il primo per la Stax – non a caso) è il calco sul quale innumerevoli dischi sono stati modellati negli anni a venire (vi dice nulla Exile On Main St.…?).

Non che prima di Born Under A Bad Sign (1967) questo ragazzone del Mississippi passasse inosservato, se non altro per la stazza imponente e la sua Lucy, una scintillante Gibson Flying V rovesciata per ovviare al suo suonare mancino.

Gente come Eric Clapton o il buon Jimi Hendrix già avevano ascoltato Albert King, lo avevano studiato e avevano incorporato nel loro stile il suo particolare modo di trattare la sei corde.

Ma ecco, Born Under A Bad Sign rischia seriamente di passare per il disco electric blues definitivo.

Il lato A è il più movimentato: dalla immortale title track, passando per una serie di brani (oggi) classici del genere (Oh, Pretty Woman, Kansas City, Crosscut Saw), Booker T. & The M.G.’s e i Memphis Horns accompagnano Albert King, la sua voce e la sua chitarra – egregiamente supportati da Steve Cropper – e contribuiscono a creare un suono nuovo.

L’architettura del blues rurale è lì a fare da sfondo, mentre i fiati creano uno spazio soul in cui l’elettricità graffiante del nostro si fa largo come una lama calda nel burro.

Il lato B invece inanella una serie di capolavori più intimi (su tutti: la chiusura The Very Thought Of You, ma anche Laundromat Blues e I Almost Lost My Mind) sui quali – se possibile – la voce di Albert King raggiunge vette ancor più straordinarie, mentre Isaac Hayes (!) accarezza il pianoforte.

Born Under A Bad Sign è l’unica composizione originale su questo disco, ma tanto basta: il blues è soprattutto questione di interpretazione e la nuova via tracciata da Albert King rimarrà per sempre negli annali.

È una formula che però non prescinde dal famoso patto con il diavolo: Clapton ha passato un’intera carriera tentando di arrivare a questa perfezione, ma invano.

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