Appunti

AMY

Amy_winehouse
Pare che AMY rimarrà nelle sale ancora un po’, visto lo straordinario successo di pubblico.
E’ una buona notizia anche perché alcune cose da noi arrivano alla spicciolata e prendono la forma di veri e propri happening (poche proiezioni, poche le sale, biglietti ovviamente a prezzi rincarati rispetto alla normale programmazione) e probabilmente non dovrebbe essere così.
Se questo succede perché qualcuno pensa che non ci sia granché interesse rispetto ad un certo tipo di produzioni, la quantità di gente che ha affollato le sale (in questo ed in altri casi) è una buona smentita; se questo succede perché comunque, nel dubbio, è meglio lucrarci su.. dovremmo disertare in massa, (ma) questa e tante altre cose.

Ciò detto, AMY tiene fede al suo sottotitolo (The Girl Behind The Name) e nulla approfondisce dal punto di vista della creazione/produzione di Frank e Back To Black (ad esempio: come mai sono così diversi l’uno dall’altro? Perché il secondo è frutto della collaborazione con Mark Ronson. Ok, perché Mark Ronson? Nulla.); sotto questo profilo, si coglie solamente il fatto che le canzoni di Amy Winehouse siano tutte molto personali, trasposizioni taglienti di ansie, esperienze, crescite incerte e fragilità assortite.
Il documentario si concentra proprio sulla sua persona, quindi.
E conferma che Amy Winehouse non ha vissuto altro che il tipico cliché di molti altri artisti: un’ascesa basata su doti straordinarie e una caduta dovuta all’incapacità di gestire la fama (un modo deve pur esserci, nonostante la più spinta sensibilità).

Nel mezzo, una vita evidentemente troppo intensa per lei: scelte sbagliate, amicizie ondivaghe, personaggi squallidi (padre compreso, facilmente il peggiore), probabili traumi infantili, paparazzi, stress, droghe, solitudine, pressione, voce, adorazione, fanatismo.

Insomma, il regista Asif Kapadia aveva almeno un centinaio di altri possibili soggetti, ma ha scelto Amy, dice, «per toglierla dal piedistallo, umanizzarla; era la ragazza della porta accanto» (entrambi, peraltro, vengono dalla zona nord di Londra).

Questa è l’unica possibile ottica in cui guardare AMY: è crudo, un pugno in faccia narrato da molte voci, tra cui quelle dei veri amici, video privati e filmati in cui si vede – letteralmente – il privato trascinato via dai paparazzi. E’ uno stridore raccapricciante, il contrasto tra pubblico e privato rivelato senza filtri.
Osservare il viso di Amy agli esordi, senza il trucco pesante, è solo il primo degli shock.

Guardare come tutto culmina verso la morte – di quello stiamo parlando, altrimenti non saremmo qui – proietta in una sorta di macabra attesa di un finale già scritto, ma forse per la prima volta interamente mediatico; una sorta di tragico Truman Show senza possibilità di redenzione.

Ecco, il solo senso che può avere un documentario come AMY non è l’istinto voyeuristico – che pudore e rispetto dovrebbero mettere a tacere –  ma il suo svelare una spietatissima fenomenologia del successo.

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