Dischi

Autechre – LP5

Abbiamo tentato molte volte di parlare di LP5, senza trovare una prospettiva che davvero ci convincesse.

Allora cambiamo approccio: quella che segue è la trascrizione – solo in minima parte adattata – degli appunti presi ascoltandolo una delle prime volte.

Non la prima volta, nemmeno la seconda, forse la terza; quando, insomma, ci era sembrata una buona idea obbedire al volere degli Autechre e prestare la massima attenzione possibile, in cuffia, concentrandosi sul suono.

Acroyear2: alcuni beep sparsi, poi parte con un ritmo velocissimo, claustrofobico ed una melodia robotica sciocca. Verso i 5′ la traccia rallenta, inciampa, si sparge in un giro dissonante prima di placarsi davvero e svanire in stereo.

777: anche in questo caso pochi brevissimi secondi introduttivi – come a cercare una accordatura improbabile – e poi al centro un beat densissimo, sempre più acuto e sfasato, mentre sul canale destro e su quello sinistro si aggrovigliano interferenze, segmenti casuali, micro-ritmi e rumori di fondo. Poi di colpo gli Autechre levano il piede dall’acceleratore, tutto si quieta e in un istante 777 scompare in un punto imprecisato del cervello.

Rae: il focus qui è la melodia, placida e pastorale; sembra di ascoltare i Boards Of Canada con più propulsione, e ancora di più quando verso i 3′ i battiti rallentano notevolmente. Gli ultimi centoventi/centottanta secondi sono pura rovina e poi neppure più, solo (quello che sembra il suono di) un organo lasciato a marcire.

Melve: un’altra melodia, appena 1’15” che suonano come un carillon svuotato. Il frammento che appare ad un certo punto sul canale sinistro, quasi impercettibile, è assolutamente inquietante.

Vose In: tornano prevalere i beat, almeno all’inizio; il ritmo è una risacca, si allarga e poi si restringe, il tempo è lento. Una melodia ieratica cresce dallo sfondo, si espande, prende la scena e poi scompare e quello che era ritmo diventa melodia. Passati i 3′ appare un bug nel sistema e la traccia svolta verso una lunghissima coda fatta di energia statica e scorbutica che man mano si arrotola e ricompare in quella dopo senza soluzione di continuità.

Fold 4, Wrap 5: non parte mai, va per tentativi ed ogni passo avanti sono in realtà due indietro.

Under Boac: una prima sezione martellante, asciuttissima; compaiono voci, sembrano alieni impegnati in una cospirazione, si fermano solo per contemplare quella che diventa una maestosa lotta tra il ritmo e una linea melodica soffocata. Attorno ai 2’40” gli Autechre fermano tutto, la loro creazione inizia a scricchiolare intorno a beat circolari che sembrano carambolare tra pareti di metallo in uno spazio vuoto.

Corc: ovattata, quasi dolce, il ritmo sembra ottenuto picchiando su scatoloni di plastica dura; l’outro è un minuto estatico, minimale: pura solitudine.

Caliper Remote: fondamentalmente 2′ di rattle rattle in primo piano; in secondo piano una melodia esile e sullo sfondo va e viene un suono basso, intermittente, un presagio spaventoso.

Arch Carrier: Aphex Twin in un videogame 8bit, poi arriva il beat più grasso di tutto LP5 e poi ancora una orchestrazione cinematica. Una sterzata e siamo nella colonna sonora di un thriller, poi di nuovo indietro finché all’improvviso non scompare tutto quanto, risucchiato nella traccia successiva.

Drane 2: all’inizio è solo un gorgo, un risucchio. Poi uno staccato che sembra una tromba con la sordina e all’improvviso – proprio mentre tutto stava diventando molto Fennesz – appare una figura ritmica multiforme che è come gettare diversi oggetti contemporaneamente nel medesimo spazio, ma ognuno ha una propria velocità, un suo rimbalzo, e produce un suono diverso. Un breve accenno a qualcosa che potrebbe andare benissimo in un club, ma rimane distante come un miraggio. Ad un certo punto gli Autechre si producono in una specie di esercizio che sospende ogni cognizione spazio/temporale, rimane solo una tensione sottilissima fino al silenzio più buio. Sembra tutto finito ma dopo molti minuti LP5 torna in vita: 140″ che suonano come un accenno di ribellione delle macchine che – ancora calde e pulsanti – si rifiutano di essere definitivamente spente.

La conclusione nemmeno la mettiamo, è facilmente immaginabile a questo punto. Era il 1998 e gli Autechre di lì a poco ci sarebbero andati giù ancora più pesanti con album assolutamente astratti, a tratti sfibranti e all’apparenza sempre più concettuali.

LP5 rimane una sorta di spartiacque, il primo passo di un percorso nuovo, ma preso di per sé (ammesso e non concesso che si possa fare) vive del fascino di tutte quelle cose alle quali è impossibile attribuire un significato univoco.