Gli unici Bloc Party che meritano di essere ricordati sono quelli di Silent Alarm, l’esordio adrenalinico pubblicato nel febbraio 2005.
Kele Okereke e Russell Lissack avevano certe idee da tempo – una su tutte: realizzare qualcosa che trascendesse la nicchia indie rock e si rivolgesse ad un pubblico più trasversale – e alla fine fu Paul Epworth, nel ruolo di produttore, a renderle concrete.
Il momento era molto eccitante per la guitar music, ma Silent Alarm riesce a fondere con molta fuidità chitarre e ritmiche sincopate mutuate da altri mondi; porta i beat in mezzo alle sei corde e viceversa, senza alcun campionamento, senza tracimare nel revival del funk(y) ma tenendo anzi i piedi ben piantati nella tradizione post-punk britannica.
Sul debutto dei Bloc Party la sezione ritmica è sempre in primo piano, le chitarre riassumono e ridisegnano gli ultimi vent’anni di utilizzo dello strumento, dagli Smiths agli Strokes, passando per i Radiohead.
Si va da quella specie di sirena al delay, il basso torturato e la fragorosa apertura ritmica di Like Eating Glass al battito notturno di Compliments e tutto quello che c’è nel mezzo può essere cristallino (l’intro e gli echi di So Here We Are), anfetaminico (Helicopter), saltellante (Banquet) o addirittura furioso (il finale di Blue Light), ma è tutto uno squillare di chitarre, di voci che si stendono accorate e di batteria che pulsa, pulsa, pulsa: sempre, attraverso ogni cambio di ritmica.
Silent Alarm rimane un disco rock – a volerci attaccare una etichetta – ma le sue architetture erano (e sono) qualcosa di assolutamente inedito. E la voce soul di Kele Okereke riempie ogni spazio.
I Bloc Party volevano essere diversi e ci riuscirono, almeno per un attimo – per questo attimo.
Poi, come accadde a molti dei loro contemporanei l’ispirazione si affievolì fino a scomparire del tutto.
La loro legacy è Silent Alarm, un groviglio di nervosismo suburbano e desolato, un vagito inquietante destinato a rimanere isolato.
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