Dischi

Bob Dylan – Tempest

Bob_Dylan-Tempest-Frontal-590x590…e Leo, proprio mentre Cupido scocca sua la sua freccia, sente un rumore fortissimo: qualcosa che proprio non va; lo capisce subito, che non rimarrà li ancora a lungo.

C’è poi il Capitano, aggrappato al timone, tonnellate di acciaio sopra la sua testa e sotto di lui, che si rende conto di aver perso la sua corsa.

C’è il cappellano, che lascia la sua cabina per aiutare gli altri passeggeri – almeno fino a non poter fare altro che volgere gli occhi al cielo, e affidare quelle anime – e la sua – al Signore.

Poi c’è Jim Dandy che sorride. Lui, anche se non ha mai imparato a nuotare, lascia il suo posto sulla scialuppa ad un bambino. E pure se ora sente distintamente la morte avvicinarsi, il suo spirito non potrebbe essere più sereno.

E ci sono molti, molti altri.

C’è soprattutto il mare, glaciale, implacabile ed imparziale, che copre tutto e tutti con il suo manto: il povero e il ricco, l’orchestrale ed il cameriere, l’ufficiale e il mozzo, il gestore del bordello e l’uomo di chiesa, la cambusa e il salone sfarzoso.
Il mare sfonda tutto, riempie le stanze, scaglia in giro i corpi e i pezzi lucenti di quella titanica modernità. Rabbioso, tra l’impaziente incredulità di quelli a terra, la paura e lo sgomento di quelli che non avrebbero mai immaginato di non tornare.

Così Bob Dylan racconta la storia del gigante dei mari, e lo fa per la prima volta qui sulla title track del suo nuovo Tempest. È un racconto epico, fitto di particolari cruenti, poesia – e quasi stupisce che proprio lui, Mr. Zimmerman, abbia atteso così tanto per narrare la storia più tragica e potente del secolo breve, lui che di mestiere fa il cantastorie.

Eppure così è, e per noi legati stretti al nostro, di Titanic, è potente sentire ancora quella storia, stavolta raccontata direttamente dalla sua voce; questa storia che fa tutto il giro, insomma, per poi tornare là, come fosse di nuovo alla fonte.

Dylan a settant’anni suonati si prende certe libertà che possono solo i maestri.
Cioè, solo lui.

Raccontare la storia del Titanic dopo tutti gli altri è una di quelle, e lo fa persino citando quel film. L’altra storia, bella grossa e ancor più rivoluzionaria, ha a che fare anch’essa con il secolo breve, ed è una di quelle che ha ribaltato tutte le carte in tavola. Anzi, in fondo è quella che giustifica questo mio scrivere ed il vostro leggere: quella dei Beatles.

Roll On John è un saluto (più che un tributo) a Lennon, soprattutto; ma ad ascoltare questi sette minuti viene in mente che sia stata scritta con quel detto sul cuore: quello secondo cui i padri non dovrebbero sopravvivere ai figli. Dylan e i quattro di Liverpool sono praticamente coetanei (lui, del ’41, Lennon del ’40) – ma è Dylan ad essere ancora qui a scalciare e grugnire sul palco, e chissà se ci sperava o se lo immaginava.

O forse il punto è che Dylan è sempre sempre stato (anche quanto era un oggetto misterioso e rivoluzionario) una di quelle vecchie locomotive, lente ma costanti ed implacabili. Non ti aspetti possa traghettarti fino al 2000 ed oltre, ma lei ci arriva eccome, un passo alla volta, sul suo percorso.

E ora farà pure la figura di un pezzo da museo in mezzo a cose più agili, ma quando Mr. Zimmerman attacca a dire I heard the news today, oh boy.. è impossible non farsi prendere da una splendida maliconia.

Altrove Dylan – la cui voce, dobbiamo dirlo, è ormai pura raucedine – fa il piacione esistenzialista a ritmo quasi jazzato (Duquesne Whistle), si addentra in territori in cui cammina un po’ sulle uova (Early Roman Kings, dedicata a B.B. King), e anche se abbonda sempre nel minutaggio – e talvolta nella delicatezza – tira fuori almeno un paio di ruggiti che non sarebbero fuori luogo sui suoi album di metà anni ’60: Pay In Blood (in cui evoca certa cattiveria degna degli Stones citando la Bibbia: pagherò in sangue.. ma non col mio, ghigna) e Narrow Way.

Poi, come al solito, ci sarebbe da passare settimane a decifrare anche solo superficialmente i riferimenti, le citazioni, le storie e i poeti che Dylan butta dentro nei suoi testi con la stessa noncuranza con cui noi si getta via la cenere dalla sigaretta. Ci vorrebbe un esperto di sacre scritture, soprattutto, e poi uno che conosca la storia della frontiera americana, un altro che sappia del folk più oscuro, un altro ancora che conosca la storia dei Pellerossa. Tra Ginsberg, ultime cene, citazioni bibliche e romanzate popolari, ci sarebbe da metterci tutto il tempo tra Tempest e il prossimo disco, per infilarcisi dentro fino ai gomiti e capire.

C’è tutto il tempo, in realtà, perché (come molte altre volte) si dice questo possa essere davvero l’ultimo capitolo. Chi lo sa: in Dylan il confine tra ciò che è reale, ciò che è vero, ciò che appare, ciò che è inventato, sussurrato, verosimile, è da sempre una chimera.

L’unica cosa è accettare Tempest così com’è: un regalo imperfetto ma vitale, e accoglierlo come il lavoro di uno degli ultimi uomini di una generazione che ci sta lasciando soli.

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