È un lungo discorso senza inizio o fine, quello di Bon Iver (*).
Quanti ne facciamo? Quanti ne congeliamo? Non è detto che non stiano bene lì appesi, ci basterà solo tendere la mano.
Anche se non ci siamo mai trovati in una baracca del Wisconsin a leccarci le ferite, sparsi nella neve, non vuol dire che non l’abbiamo fatto. O che tutto quel sale servisse solo per il ghiaccio intorno.
E ora siamo a riempire i nostri discorsi di chitarre distanti e nervose, dove prima c’era il soffice scricchiolare delle assi del pavimento.
E diamo alle nostre esternazioni dei nomi di luoghi, a creare una mappa di dove abbiamo lanciato le parole, ché la neve a primavera và, e poi che ne sai di dove si sono nascoste.
Usiamo i fiati per segnare la misura coma del cuore, rullate grandi come temporali per divincolarci dal buio.
Poi con voce camuffata intoniamo preghiere alla natura, che non ghiacci i fiumi, che lasci tutto così, com’è, comunque sia questo acquerello soffuso che noi ricomponiamo come un puzzle in ordine sparso.
E non cofesseremo mai che anche certi giorni d’estate ci viene una gran voglia d’inverno, quando le cose che ci dicevamo rimanevano lì ferme nell’aria intorno.
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(*) il copyright di queste prime e calzanti parole inventate a caso va ad una persona che dovrebbe scrivere (di più?). Uno perde le parole, un’altro le ritrova, quello di prima le mette lì.
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