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Bruce Springsteen – Wrecking Ball

bruce-springsteen-wrecking-ball-300x300«We take care of our own / wherever this flag’s flown / we take care of our own / from Chicago to New Orleans / from the muscle to the bone..»: la canzone scelta da Springsteen per aprire il suo nuovo album, Wrecking Ball, è la tipica canzone-da-Springsteen.

Anzi, per coinvolgimento e fraintendibilità probabilmente è tanto potente quanto Born In The U.S.A.

In verità, ora come allora, la chiave non è nel refrain a presa rapida ma tutto quello ci gira intorno. Facile cadere nel tranello e leggere We Take Care Of Our Own come la celebrazione dell’autosufficienza degli States, da tutto/i. Al contrario, la canzone è una chiara denuncia dell’arroganza degli U.S.A., che spesso, camuffandola con buoni propositi (the road of good intentions has gone dry as bone…), finiscono per usare il mondo intero come proprio parco giochi. In altre parole, è la decostruzione di un mito.

Impossibile non partire da questo per parlare di Wrecking Ball, perché la crisi di questi anni mostra il re nudo: l’autosufficienza dello Stato-continente altro non è che una favola.

E sono tempi bui, quelli in cui Springsteen fa muovere i suoi personaggi (ma mai come questa volta – per il radicamento di questi al qui/ora – si dovrebbe parlare di persone), perennemente alla ricerca di tutto: del motivo perché tirare innanzi, del come, del con chi, e persino del quando, costretti a rispondere a meccanismi economici grandi e ingovernabili piuttosto che a legittime aspirazioni individuali (o collettive).

È qui il senso ultimo di Wrecking Ball, incazzato nei toni e sorprendernte nei modi.

A partire da quella batteria gigantesca su We Take Care Of Our Own, musicalmente il disco attraversa una varietà di stili e linguaggi impensabili, ma pare anche questa una metafora del grande meltin’ pot americano, e una grande lezione imparata dalle Seeger Sessions. C’è l’irish folk della conclusiva American Land, il ritmo gitano di We Are Alive, ci sono le ultime registrazioni di Clarence Clemons, ci sono il gospel e i fiati.

C’è, a conti fatti, una grande anima popolana che prevale sul linguaggio del rock’n’roll. Nessuna sorpresa: è da tempo che Springsteen, più che l’erede disincantato di Elvis, si è trasformato nel portatore del messaggio che fu di Woody Guthtrie e Peter Seeger, filtrato (mai contaminato) attraverso il suo personalissimo bagaglio musicale, lungo quattro decenni.

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