Ora ci sembra normalissimo ritrovarli ovunque: radio, tv, pubblicità, premiazioni; ma i Black Keys vengono da molto lontano e prima di Brothers erano – al più – un illustre culto alternative.
Hanno disseminato questo lungo questo percorso con alcune cover non da poco, preferendo spesso brani pop-rock all’apparenza poco adatti alla loro ristretta formazione batteria-chitarra (poi tempo comunque ampliata): a differenza di altri (vedi: White Stripes) il blues non è mai stato un dogma per Patrick Carney e Dan Auerbach.
She Said She Said (The Beatles, 1966): pronti via e sul debutto The Big Come Up i Black Keys se ne escono con questa rivisitazione primitiva dei Beatles, sostituendo le chitarre psichedeliche di Harrison e Lennon con il loro fuzz minimale; la voce di Auerbach, poi, priva le parole di ogni pigrizia alterata e quasi sembra di sentire il tono usato da Lennon nella famosa conversazione che ispirò la composizione dei Fab Four (l’attore Peter Fonda cercava di consolare George Harrison – spaventato dall’assalto dei fan alla villa di Hollywood in cui i Beatles risiedevano in quei giorni – confidandogli di sapere «come ci si sente da morti»; ritenendo che le sue parole fossero tutt’altro che empatiche John lo zittì: «lascia stare queste stronzate, mi fai sentire come non fossi mai nato»).
Act Nice And Gentle (The Kinks, 1967): di nuovo un ripescaggio dagli anni ’60 inglesi, a dimostrazione che nel DNA del duo c’è tanta swinging London quanto – almeno – delta blues. La celebre b-side di Waterloo Sunset, concepita e suonata dai Kinks come una specie di folk anfetaminico, diventa un blues scazzato e sofferente. La trovate su Rubber Factory (2004).
The Wicked Messenger (Bob Dylan, 1967): nel 2007 i Black Keys partecipano alla colonna sonora dello stralunato (ma bellissimo) biopic (?) su Dylan, I’m Not There, e lo fanno con questo ripescaggio di un brano molto enigmatico contenuto in John Wesley Harding. E’ la storia di un messaggero venuto dalla città di Eli: interrogato su chi lo mandasse, la sua mente iniziò a divagare inconcludente. Dylan trascina questo folk chitarra e armonica fino ad una conclusione biblica, con mari che si aprono e la minaccia della gente di città rivolta al messaggero: «se non porti buone notizie, non portarne alcuna»; Auerbach lo trascina tra le paludi del Mississippi con un blues elettrico scandito dalle potenti percussioni di Carney.
Dearest (Buddy Holly, 1964): conosciuta anche come Ummm, Oh Yeah (Dearest), questa è una della canzoni più piccole di Buddy Holly e i Black Keys si mantengono sul minimale, ma la tenerezza pare sostituita dall’urgenza. Sta su Rave On Buddy Holly, compilation tributo pubblicata nel 2011.
No Fun (The Stooges, 1969): per il Record Store Day 2013 il due disinnescano il classico di Iggy Pop e lo spogliano di tutta la sua furia distruttiva; ma rendono perfettamente l’idea di scazzo ed insoddisfazione, con la voce tagliata e i rintocchi blues della chitarra.
A Girl Like You (Edwyn Collins, 1994): prendetela come volete, anche come un segno di virata verso l’easy listening più facilone, ma negli ultimi mesi questa rivisitazione del pop perfetto di Edwyn Collins (con l’aiutino del campionamento del classico northern soul 1-2-3 di Len Barry) si è guadagnata parecchio spazio nella scaletta live dei Black Keys (in formazione allargata): perfetta.
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Nelle puntate precedenti:
Cover versions 001: Verdena
Cover versions 002: Bruce Springsteen
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