Dischi

Editors – The Back Room

The Back Room è uno strano affare in cui meriti e demeriti si sovrappongono e confondono: il suo suono decisamente derivativo non è certo un pregio, ma ha introdotto un’intera generazione ad un rock’n’roll oscuro, depresso ed emotivo che fino ad allora era sfuggito alla retromania (almeno su una così vasta scala).

Insomma, a differenza della maggior parte delle band che esordivano dell’epoca in Inghilterra (2005), che stavano ancora in piena botta britpop, gli Editors guardavano allo spettro cromatico che va dagli Orchestral Manoeuvres In The Dark ai Joy Division e da questi ad Echo & The Bunnymen, Siouxsie & The Banshess ed ai Cure più foschi, non oltre.

Negli anni zero, il recupero di quell’ondata affascinante si deve a loro ed alla loro controparte americana, gli Interpol, ai quali gli Editors sono legati da un comune destino artistico: tutto quanto prodotto successivamente al primo album è più o meno trascurabile.

The Back Room funziona soprattutto in quegli episodi in cui non solo la sezione ritmica gira a mille, la voce di Tom Smith salta con agilità da un registro all’altro e le chitarre si incuneano in profondità (o rimangono sospese inquiete a mezz’aria), ma dove tutto questo collide con una scrittura effettivamente solida: Munich, Blood, Lights, All Sparks, Bullets – non a caso tutti singoli – sono un meraviglioso compendio di alienazione e autismo.

Nessuna però raggiunge l’intensità di Camera, che poggia forte sulla voce di Smith e per il resto lavora di sottrazione fino a quando il basso e i synth non prendono il sopravvento su tutto, producendosi nel più verosimile outtake di Closer mai sentito.

E, appunto, pur se solo il successivo An End Has A Start (titolo quantomai appropriato) merita ancora un ascolto, ce n’è abbastanza per considerare The Back Room un classico degli anni zero.