Come ormai spesso accade, il nome dei londinesi Factory Floor circolava già da molto tempo prima di questo eponimo esordio per la DFA, e non a caso: un paio di anni fa i tre avevano avuto la sfacciataggine di inviare una copia del loro primo ep nientemeno che a Stephen Morris (New Order / Joy Division), semplicemente scrivendo sulla busta “Stepehn Morris, Macclesfield”, e la fortuna di ricevere una risposta ed un invito da cui ha poi preso forma Two Different Ways (Second Way); un giorno hanno scritto una mail al leggendario Peter Gordon, e da quell’ulteriore abboccamento è nato l’ep Beachcombing; non è chiaro come è successo che siano stati remixati anche da Christ Carter dei Throbbing Gristle, ma possiamo immaginare.
Frattempo, negli 8 (!) anni trascorsi dalla loro formazione all’esordio – oltre stalkerare dèi della musica – i Factory Floor sono saliti spesso alla ribalta per esibizioni terrificanti (questioni di volume e adrenalina) e per le continue domande se il loro nome fosse un riferimento alla Factory Records e/o alla Factory di Warhol (risposta: nessuna delle due cose, il termine factory ha a che fare con la produttività, la creatività e suona bene accanto floor).
E ora ecco Factory Floor: con la sua paranoia luminescente, il suo incedere flashato ed ipnotico, il suo minimalismo fluorescente. Un’elettronica iperdigitale che rielabora linguaggi sdoganati dai Kraftwerk ed elementi di puro post punk in uno stilema nuovo fatto di essenzialità, cibernetica, rumore e colore; l’elemento umano c’è ma è solo deus ex machina (mai come in questo disco) che intreccia sequenze e battiti, che con scientificità spadroneggia sul tasto on/off delle nostre distorsioni.
E pur se sembra effettivamente di trovarsi nel bel mezzo di una catena di montaggio, la serialità dei Factory Floor non è quella di Tempi Moderni, ma ha più a che fare con quella schizofrenica e colorata di Warhol.
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