Helplessness Blues ha bisogno di molta attenzione. Deve essere ascoltato e riascoltato per non essere liquidato come un secondo disco troppo difficile o inaccessibile.
Rispetto all’esordio, i Fleet Foxes infittiscono molto le trame del loro suono arcaico, e riescono nel doppio salto di smarcarsi dal brodo indie–folk e dal paragone troppo ingombrante (e semplicistico) con gli eroi del genere Crosby, Stills, Nash & Young.
Se Fleet Foxes aveva più che altro il suono dei Beach Boys paracadutati sulla neve la mattina di Natale, Helplessness Blues pare piuttosto un viaggio mistico attraverso riti ancestrali e sciamanici, animato com’è da cambi di ritmo, percussioni, complessità armoniche.
Basta prendere ad esempio la suite di otto minuti The Shrine/An Argument, che muove da una preghiera delicata e arpeggiata, prosegue in un crescendo celestiale ed estatico per poi farsi ritmica ed incalzante, e di nuovo, a metà, scemare verso un corale che prelude ad una chiusura fatta di archi e fiati martoriati.
Sono questi i “nuovi” Fleet Foxes, capaci di passare dall’orecchiabilità più spinta alla free form senza apparenti forzature.
«In dearth or in excess / both the slave and the empress / will return to the dirt, I guess, naked as when they came»: Helplessness Blues è impregnato di esistenzialismo, ed esprime un legame ombelicale con la natura, intesa come forza mistica divina, superiore, in base alla quale tutte le cose accadono o meno.
Non è un album diretto ed immediato come il precedente, ma sicuramente stupisce il modo in cui fonde la densità del blues e la ruralità del folk, investendo entrambi di spiritualità cosmica.
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