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Four Tet – Rounds

139-four-tetDieci anni fa, o poco meno (il tempo che è passato da quando questo disco è stato pubblicato a quando effettivamente io ne ho avuto contezza, ahimé, non so contarlo), Rounds mi sembrava una creazione fantastica ed irripetibile.

Con il tempo, ho ascoltato un sacco di jazz e ho intuito (capito sarebbe una parola troppo grossa) da dove Four Tet ha estrapolato certe tessiture; lui, Kieran Hebden,  ha contaminato la sua musica da sogno con la house ed ha creato altre tessiture impalpabili ma molto più  orientate al dancefloor. 

E per quanto There Is Love In You, Ringer e pure il recente Pink siano dischi fantastici, è a Rounds che ritorno più spesso.

Il vero potere di Rounds, probabilmente, è che questi 45′ sono effettivamente musica da cameretta: ma non tanto perché creati, legati e compiuti interamente con un laptop, in completa solitudine, passata la mezzanotte.
No, il fatto è che Rounds ha un suono domestico, familiare, folk. Ascoltarlo vuole dire sentirsi a casa, a proprio agio.  musica che parla con una parte di noi inafferrabile, e che probabilmente in molti di noi esiste solo e fino a che anche l’ultima nota di Slow Jam si spegne.

Ecco, Four Tet è riuscito pienamente nel suo intento.
Composto effettivamente nelle wee hours, trascorse a passare, filtrare e mettere insieme frammenti di suono; sembra di sentire la concentrazione, la perizia, la voglia di trasmettere un sentimento.
Hebden non ha mai nascosto il fatto che, per nulla contento delle sue produzioni precedenti («troppo citazioniste») volesse comporre qualcosa di personale, nei toni e nel mood.
E infatti, tutti coloro che ci sono passati, sentiranno in Rounds la fine di un rapporto e la forza di un nuovo amore; sentiranno la fatica e quella sensazione di solitudine sballata di tornare a casa tardissimo di notte senza voglia di dormire; sentiranno la solitudine, anche quella di un abbraccio, e l’euforia frenetica di un afterglow lavorativo.

Con molta fretta e con l’imperante smania di etichettare qualunque cosa, questo album fu inserito nel filone folktronica – qualcosa che si fa fatica a definire, se non in contrapposizione con la risacca del big beat e la house che dominavano il mainstream di fine secolo (scorso).
In realtà il viaggio di una nuova elettronica passa da questi suoni (e non solo dalla scelta di parlare al cuore più che alle gambe – se non al culo): il recupero di certi percussionismi e stilemi jazz, di strumenti acustici deformati ad arte, di innesti analogici irrintracciabili.

E sembra davvero di vedere tanti piccoli pezzetti di vetro colorati in controluce.

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