Il titolo è azzeccato, De Gregori Canta Bob Dylan: Amore E Furto, non per la citazione (Love & Theft), ma perché un conto è tradurre Dylan, un’altra cosa è cantarlo.
Tradurre è il verbo con il quale indichiamo (nella maggior parte dei casi, solamente) l’atto di trasporre parole, vocaboli e frasi da una lingua all’altra; ma ha soprattutto un’accezione diversa e più prossima alla sua radice latina tradere, che è tramandare, consegnare, affidare (o – al riflessivo – consegnarsi, arrendersi), che – attenzione, ci vuole un attimo – è la stessa radice del nostro tradire.
La questione è tutta qui ed è assai complessa.
Francesco De Gregori non ha trattato i testi di Dylan come poesie, parole da lasciare su carta, ma ha dovuto fare un passo in più: renderli in italiano in modo che fossero cantabili, cioè ancora incollati alle melodie originali nonostante il cambio di idioma.
Ma ancora – oltre ogni sfida imposta dalla metrica, dalla sillabazione e dalla melodia – lo scoglio più imponente è l’orizzonte in cui Bob Dylan si muove e ha concepito le sue canzoni.
Un panorama frammentario, che ha a che fare con la storia stessa degli Stati Uniti, con le loro radici, la loro fondazione e la loro costituzione materiale, come ha spiegato efficacemente Greil Marcus nel libro Like A Rolling Stone, dedicato a quella che probabilmente è la più importante canzone di sempre.
E De Gregori era l’unico che potesse seriamente misurarsi con una tale impresa.
È chiaro che non potesse avere (e non ha) alcun senso una traduzione impermeabile al background sociale, politico e culturale di Dylan: le sue canzoni – semplicemente – si sgonfierebbero; eppure si può tranquillamente dire che tra quelli che lo apprezzano al di fuori degli States, pochi sono coloro che lo comprendono in pieno o che almeno ne intuiscono la portata.
Questo è il più grosso ostacolo concettuale con il quale De Gregori ha dovuto fare i conti in Amore E Furto, una difficoltà che non poteva essere aggirata da un’arida ricerca per equivalente.
In parte De Gregori affronta Dylan scegliendo alcune canzoni che potrebbero essere considerate note a margine della sua discografia (Sweetheart Like You, Tweedle Dee & Tweedle Dum, Series Of Dreams, If You See Her Say Hello – già edita), ma non rinuncia affatto a misurarsi con brani ben più maestosi: I Shall Be Released (Come Il Giorno: la più riuscita perché fa dimenticare che non si tratta di una cover), Desolation Row (un lavoro iniziato molto tempo addietro, questo, in compagnia di De Andrè), addirittura Subterranean Homesick Blues, la più difficile, che diventa Acido Seminterrato.
Alcune volte pare inciampare sul rischio di suonare troppo didascalico o letterale (Political World è Mondo Politico; Series Of Dreams è Una Serie Di Sogni; Gotta Serve Somebody è Servire Qualcuno), ma si tratta semplicemente di una impressione testuale.
È solo un inganno della mente, perché il Principe diventa qui uno scaltro giocoliere che muove le parole del Menestrello, coglie le loro sfumature e le riscrive beffarde, le usa per raccontare quello che adesso vuole raccontare lui, non più quello che voleva (forse) raccontare l’altro.
Quindi Amore E Furto funziona proprio così com’è – con il suo libretto con i testi a fronte, i suoi arrangiamenti (purtroppo) non distanti da un qualsiasi lavoro del De Gregori degli anni zero ed il suo background piegato ma intatto – ma come è possibile?
De Gregori riesce a cantare Bob Dylan perché De Gregori è Bob Dylan.
È una delle sue tante anime – alla pari del poeta beat, del ribelle in motocicletta, del menestrello folk della Rolling Thuner Revue, del bluesman cieco del Mississippi o del vecchietto che ancora calca i palchi del mondo, dell’impostore – è quella italiana, il suo puro equivalente nostrano.
È la chiusura del cerchio: per cantare Dylan con efficacia, De Gregori doveva solo ritrovare il miglior De Gregori; ecco perché nessun altro poteva essere capace di tanto.
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