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Isaac Hayes – Hot Buttered Soul

hayes_hot_buttered_soulHot Buttered Soul è la dimostrazione di come il successo – e le rivoluzioni – possano iniziare nei modi più improbabili.

Prima di questo disco Isaac Hayes era solo un ottimo produttore e autore (sue, ad esempio, You Don’t Know Like I KnowSoul Man e Hold On, I’m Coming, portate in classifica da Sam & Dave) che aveva tentato il salto pubblicando in proprio un album al quale nessuno aveva prestato attenzione (Presenting Isaac Hayes).

Ma nel maggio del 1968, all’esito di una disputa con la Atlantic, la Stax Records – alla quale Hayes prestava i propri servigi – si ritrovò senza un catalogo; priva, cioè, non solo dei diritti su qualsiasi disco che avesse pubblicato fino a quel momento, ma anche dei master originali. Una catastrofe alla quale il boss dell’etichetta Al Bell provò a rimediare imponendo a tutti di registrare e mixare ogni materiale ancora inedito e pubblicando 27 (!) album e una trentina di singoli contemporaneamente.

La mossa funzionò, sia nel senso che la Stax – più velocemente di quanto ne fosse stata privata – si trovò con un corposo catalogo dal quale ripartire, sia nel senso che permise a Isaac Hayes di riscattarsi e (soprattutto) mettere in atto la sua rivoluzione sonora, garantendosi (e garantendo all’etichetta) un successo straordinario.

E, fortunosamente, quella disputa cambiò per sempre il volto della soul music.

Sì perché Hot Buttered Soul, che dura 46′ ed è composto da sole quattro tracce, scardina quelle che erano state le regole del r&b fino a quel momento.

Niente brani killer per l’airplay radiofonico: Isaac Hayes costruisce il suo successo dilatando i tempi, sposando la ritmica funk della backing band (i Bar-Kays!) con sontuosi arrangiamenti orchestrali di Johnny Allen, mettendo in piedi un duello tra la sua voce profondissima e le svisate blues della chitarra e delle tastiere, giocando continuamente con le dinamiche.

Si inizia con il crescendo di archi di Walk On By – sì, quella Walk On By firmata Bacharach / David che era stato un grande successo di Dionne Warwick cinque anni prima – che si scioglie in un blues torbidissimo e scivola come burro caldo su di un interpretazione in cui Hayes nulla lascia dell’allegria da cocktail della versione originale. Se ne riemerge solo dodici minuti dopo, per tuffarsi nell’unica composizione originale dell’album: Hyperbolicsyllablecsesquedalymistic, strumentale per la maggior parte dei suoi 9′ e dominata dal basso di James Alexander.

L’apoteosi è la rivisitazione di By The Time I Get To Phoenix di Jim Webb: otto minuti di introduzione spoken nei quali Hayes descrive ogni vivido dettaglio di una relazione andata in pezzi, con un fervore tanto intenso che quando smette vorresti solo che fosse finita lì – invece arrivano altri dieci minuti che realizzano la visione epica di Hot Buttered Soul incrociando gli archi, i fiati, la sezione ritmica e tutto il resto in un inedito e camaleontico soul in versione technicolor.

Non bastasse, la più coincisa composizione del disco – One Woman – è una ballatona popsoul perfetta, in cui Isaac Hayes interpreta alla perfezione stanchezza, logorio, umana indecisione.

Hot Buttered Soul mostrò una nuova via per la black music e senza questa rivelazione non avremmo avuto Al Green e Barry White (né un sacco di campionamenti hip-hop); l’interpretazione accorata di Hayes è il modello per quel soul romantico che avrebbe poi dominato le classifiche.

Ma senza quella strana possibilità che gli garantì totale libertà artistica, Isaac Hayes non ci avrebbe probabilmente riprovato: due anni dopo si ritrovò tra le mani il premio Oscar per la colonna sonora di Shaft.

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