Dischi

J Dilla – Donuts

J Dilla morì il 10 febbraio 2006, tre giorni dopo aver pubblicato Donuts.

Lo aveva completato qualche mese prima in ospedale – durante il lungo ricovero impostogli dal lupus e dalla sindrome di Moschcowitz che lentamente lo stavano uccidendo – utilizzando un sampler, un piccolo giradischi e la musica con cui sua madre e gli amici lo rifornivano.

Insomma aveva fatto tutto quanto avendo estremamente chiaro che la vita stava per sfuggirgli: dalle settimane intere passate nel basement della casa dei genitori ad imparare l’arte del beatmaking, agli esordi con i 1st Down e (poi) gli Slum Village; le successive scorribande nella produzione insieme a Q-Tip, D’Angelo, Madlib, Questlove, i lavori per Janet Jackson, De La Soul, Busta Rhymes, Erykah Badu, Common, fino all’esordio solista con Welcome 2 Detroit.

Ma Donuts non ha nulla di funereo, anzi è illuminato da una straordinaria vitalità ed è un testamento solo nel senso in cui mostra l’incredibile creatività venuta meno con la scomparsa del suo autore.

È fatto di trentuno tracce, la più lunga gira sotto i 3′, sono tutti frammenti J Dilla ha lavorato incastrando sui beat scaglie di rhythm & blues, jazz, colonne sonore, soul, musica classica persino.

Donuts è uno dei due capolavori inarrivabili della suprema arte del cut&paste (l’altro, nemmeno a dirlo è Endtroducing… di DJ Shadow) ed imbucarcisi è come continuare a sfrecciare da una frequenza all’altra pescando miracolosamente solo roba bellissima, fino all’ipnosi.

Un album di hip hop strumentale, il cui titolo viene titolo dalla passione di J Dilla per le ciambelle, ma che è impossibile non ricollegare al fatto che ad ogni ascolto sembra una cosa diversa ed è come trovarsi davanti ad un assortimento infinito di sapori (per dirla come Forrest Gump: è uguale a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita).

Donuts merita anche tutta una serie di altre considerazioni in termini di legacy – prima tra tutte: la sua iperattività incredibilmente rilassata ed i suoi toni morbidi sono la base di quello che oggi chiamiamo lo-fi hip hop (qui nella sua incarnazione più nota) ma stanno a zero di fronte alla meraviglia sonora che è.