Via i White Stripes, si scoprono un po’ di altarini. Tipo che in realtà a portare i pantaloni era Meg, che letteralmente dominava il talentuoso Jack, fino a decidere la fine del duo.
E a Jack, anche oggi, la band manca un sacco, non vede l’ora di ricongiungersi con l’altra metà delle strisce.. e però Meg non vuole saperne.
E infatti Blunderbuss non suona chissà quanto diverso dagli ultimi sforzi del duo (ad eccezione di certe suggestioni mariachi / zeppelin lì presenti, il che tante volte è un pregio): un blues rock a tratti opulento e schizoide, come se Jack White avesse cercato di compensare l’assenza di Meg con lo studio di registrazione intero, tanto che viene voglia di ascoltarne i demo, di sentire questo suono ripulito da tutto questi trick di sala. Ma è una stereofonia che affonda le sue radici sempre lì a quel maledetto incrocio dove si vende l’anima al diavolo.
È un album che non risparmia qualche momento realmente amaro e rancoroso (Hip (Eponimous) Poor Boy), né episodi di quelli che si inchiodano in testa (I’m Shaking), e concede pure qualche minuto di air guitar (Sixteen Saltines), e grandiose piacevolezze quasi sadomaso (Love Interruption).
È chiaro che Jack parla quel linguaggio, e che questo non è il suo tempo, come non fosse del tutto a suo agio a far da tramite tra la modernità e una musica tanto antica.
Ma Blunderbuss vale tanta tristezza e amarezza quanto pesa. Cosa gli manca per essere un disco grandioso, più che vivere di episodi? Meg.
E appunto, forse un giorno ne sentiremo una versione naked, come fu per Let It Be, e sarà pure meglio.
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