Celebration Rock inizia (e finisce) con lo scoppiettio di fuochi d’artificio: e già dal titolo e per stessa ammissione dei suoi autori ha una sola chiave di lettura.
Divertirsi, scorazzare in lungo ed in largo e fare casino con gli amici – e tanto – bere, scopare. Il mondo è il parco giochi dei Japandroids.
Brian King e David Prowse lo hanno confessato apertamente, questo album è nato per continuare a fare concerti.
Detta così, l’urgenza del precedente Post-Nothing parrebbe lontana, un bengala esploso dalla frustrazione e dalla continua ricerca della via d’uscita ed ormai esaurito. In realtà mostra che il vuoto, il nulla che circonda le vite dei Japandroids quando sono giù dal palco è ancora lì: la voglia, la sete, non si sono ancora placate, né il successo degli esordi ha creato qualche altra occasione su cui lavorare su (a parte questa).
E allora, Celebration Rock mantiene le promesse, riesce nell’intento? Diverte? Sì, sì, e ancora sì. E cresce di ascolto in ascolto. Lo fa con irruenza, un’erezione vigorosa e perenne.
Ma è anche il suo più grande limite, non c’è nulla se non questo alzare al cielo i calici e darci dentro tantissimo. Senza troppe domande, senza dubbi.
Anche musicalmente, è un album primitivo, meno fresco dell’esordio, monocorde. Non mancano i momenti realmente esaltanti, tipo Younger Us o The House That Heaven Built, Adrenaline Nightshift, o tutti i cori, tutti gli oh-oh-oh-ohohoh-ooooooh da stage diving.
E’ normale, i Japandroids parlano alla pancia, ai bassi istinti: e qualche notte (sempre meno, più si diventa adulti) va proprio bene così. Senza se e senza ma, a fari spenti a fare cazzate, con Celebration Rock a tutto volume.
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