La differenza con tutte le altre formazioni a due elementi emerse tra la fine dei ’90 e l’inizio degli anni zero, oltre che geografica (Vancouver, una delle città più meravigliose del mondo occidentale) è sonica: nelle loro vene non non scorre nemmeno un briciolo di blues.
E quindi questo fulmineo debutto suona come un attacco sonoro deflagrante e totalmente sgraziato, che compensa con adrenalina ed esistenzialismo il fatto di essere totalmente privo di eleganza (in your face, si diceva una volta).
Post-Nothing potrebbe sembrare roba spiccia: ragazze francesi da baciare (appunto) alla francese, incontri con cuori freddi come il Polo, grandi proclami tipo «be crazy forever», fare casino con gli amici; ma a dire il vero quella dei Japandroids non pare musica buona (solo) per sbronzarsi e festeggiare. Non è azione, piuttosto reazione: al vuoto, ad un’età spaesata che porta il pensiero fisso di una fuga (The Boys Are Leaving Town, Soverreignity) che non lasci troppo indietro la giovinezza (Crazy Forever), o allo sconforto dell’ennesima delusione.
Ma forse inutile costruire chissà quale background, perché Post-Nothing (sopratutto) pesta fino a stordire, roba che non si sentiva dagli Hüsker Dü, e allora viene il sospetto che si tratti solo di gioia di vivere (incasinata ed ormonale).
Sul finale arriva però I Quit Girls e il tempo furioso s’arresta, la chitarra va toccare territori quasi shoegaze e la melodia è totalmente cava; quando arrivano le percussioni, dopo oltre tre minuti, cavalcano questa onda malinconica e tanto potente da abbattersi su un’intera generazione: non c’è nulla, dopo.
Allora sì, allora è vero: i Japandroids sono degli amabili cazzari, ma come tutti quelli che regalano al pubblico più di un sorriso, nascondono un alone di tristezza che pare incolmabile.
Brian King + David Prowse = Japandroids.
La differenza con tutte le altre formazioni a due elementi emerse tra la fine dei ’90 e l’inizio degli anni zero, oltre che geografica (Vancouver, una delle città più meravigliose del mondo occidentale) è sonica: nelle loro vene non non scorre nemmeno un briciolo di blues.
E quindi questo fulmineo debutto suona come un attacco sonoro deflagrante e totalmente sgraziato, che compensa con adrenalina ed esistenzialismo il fatto di essere totalmente privo di eleganza (in your face, si diceva una volta).
Post-Nothing potrebbe sembrare roba spiccia: ragazze francesi da baciare (appunto) alla francese, incontri con cuori freddi come il Polo, grandi proclami tipo «be crazy forever», fare casino con gli amici; ma a dire il vero quella dei Japandroids non pare musica buona (solo) per sbronzarsi e festeggiare. Non è azione, piuttosto reazione: al vuoto, ad un’età spaesata che porta il pensiero fisso di una fuga (The Boys Are Leaving Town, Soverreignity) che non lasci troppo indietro la giovinezza (Crazy Forever), o allo sconforto dell’ennesima delusione.
Ma forse inutile costruire chissà quale background, perché Post-Nothing (sopratutto) pesta fino a stordire, roba che non si sentiva dagli Hüsker Dü, e allora viene il sospetto che si tratti solo di gioia di vivere (incasinata ed ormonale).
Sul finale arriva però I Quit Girls e il tempo furioso s’arresta, la chitarra va toccare territori quasi shoegaze e la melodia è totalmente cava; quando arrivano le percussioni, dopo oltre tre minuti, cavalcano questa onda malinconica e tanto potente da abbattersi su un’intera generazione: non c’è nulla, dopo.
Allora sì, allora è vero: i Japandroids sono degli amabili cazzari, ma come tutti quelli che regalano al pubblico più di un sorriso, nascondono un alone di tristezza che pare incolmabile.