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Johnny Cash – At Folsom Prison

La storia del concerto di Johnny Cash al penitenziario di Folsom è stata narrata molte volte, incluso un film notevole come  Walk The Line ed un altrettanto grandioso  fumetto di Richard Kleist.

Era il 13 gennaio 1968 quando Cash si presentò lì, dopo aver vinto le resistenze della Columbia Records, con quel «hello, I’m Johnny Cash» che smise immediatamente di essere una semplice presentazione e si conficcò dritto nel mito, anche per l’atteggiamento tenuto dall’uomo in nero per tutta la durata del concerto che ne seguì: sempre in bilico tra l’ultimo tra gli ultimi e sedizione strisciante.

Insomma, le autorità avevano ragione a temere che la sua sola presenza potesse incitare gli animi tanto da provocare una rivolta, ma si resero presto conto che Cash era soprattutto un uomo di spettacolo. E come un perfetto showman trattò il pubblico, dando ai carcerati ciò di cui avevano bisogno – fosse una carezza di libertà, l’illusione di una vita lontano dalla prigione o una qualche legittimazione al loro agire – ma tenendoli sempre al suo guinzaglio.

Questa è una delle cose più strabilianti di At Folsom Prison, al tempo 27° album di Cash, pubblicato nel maggio di quello stesso anno e che lo riportò al successo (la cosa piacque così tanto che soli tredici mesi dopo replicò a San Quintino).

Alcuni album dal vivo lo equivarranno per intensità (su tutti: Live! di Bob Marley e Live At Leeds degli Who), nessuno per realismo: non solo perché Johnny Cash sentiva una sincera comunanza con quelle anime – cosa che si riflette benissimo nella performance e nella scelta dei brani – ma anche per gli schiamazzi, gli annunci di servizio, il rumore delle sedie, l’acqua che sa di ferro e l’aria che si fa meno tesa man mano che il concerto prosegue.

Dal punto di vista sonoro, poi, At Folsom Prison è un sudatissimo giro sull’ottovolante della tradizione country-folk, eseguito con un’intensità tale da lasciare senza spesso senza fiato; la serratissima ritmica di Orange Blossom Special e la sua armonica imprendibile, il terrore crescente di 25 Minutes To Go, l’andazzo fuggitivo di Cocaine Blues, l’epica fuorilegge di I Got Stripes piuttosto che la febbrile passione di Jackson (con June Carter): oggi come allora queste canzoni echeggiano di anime perse, impiccati, disperati, ladri di galline e banditi senza scrupoli, tutti in cerca di salvezza nel grande stato-continente, invece finiti per sempre tra le spaventose mura di Folsom.