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Johnny Marr – Playland

marr_playlandPlayland arriva ad un anno e poco più da The Messenger, con la dichiarata intenzione di catturare l’energia sprigionata nel lunghissimo tour, tradurre la compattezza e lo spirito della band su disco.

Ecco quindi Johnny Marr alle prese con un bel dilemma: come coniugare l’immediatezza con la profondità (che pure gli è propria, visto il sorprendente debutto solista)?

L’enigma non è del tutto risolto, ma l’ex Smiths si destreggia snocciolando molti dei suoi trucchi con la sei corde (25 Hours, Easy Money, Little King), accelerando al limite del punk rock (l’iniziale Back In The Box, ma anche la title track o Boys Get Straight) e – c’è da dirlo – svagando ogni tanto su melodie (riuscite ma) che riecheggiano addirittura gli U2 (Dynamo e Candidate).

Ne esce un album che sta un gradino sotto il precedente, e non tanto perché la sorpresa dell’esistenza di un Marr veramente solista è ormai passata o perché Playland non porti con sé quello stesso sguardo esistenzialista (anche se Easy Money fa molto grillo parlante, più che altro).

Piuttosto, a differenza di The Messenger, pare che Marr (che comunque si sta egregiamente calando nei panni del songwriter puro) sia andato con il pilota automatico e – dritto per dritto – verso scelte stilistiche molto semplici ed essenziali; e infatti Playland funziona splendidamente per la sua prima metà, con arrangiamenti e melodie più intricate, per poi calare di tono.
Interlocutorio, in attesa della attesissima redenzione – ovviamente dal vivo («vogliamo essere la migliore live band in circolazione, è sano essere ambiziosi»).

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