Lei – gallese, ex infermiera in una clinica oncologica di Manchester – dice che i migliori consigli per questo debutto li ha avuti dai suoi pazienti.
Forse è difficile crederle conoscendo i suoi trascorsi di bassista negli History Of Apple Pie, nei negozi di dischi e le sue collaborazioni con alcuni nomi notevoli come Erol Alkan e Daniel Avery; però ecco, l’orizzonte tristemente ristretto di quei pazienti ha certamente liberato Kelly Lee Owens da ogni possibile esitazione, ha innestato in lei un deciso senso di urgenza e – soprattutto – l’ha resa avida di libertà.
Il risultato, vitale, è sufficientemente leftfield da annullare ogni pretenziosità, ma pettinato quanto basta per allontanarsi dal puro homemade: Kelly Lee Owens oscilla in un limbo di minimalismo dreamy in cui il ritmo non prende mai il sopravvento, beat e sintetizzatori basilari adottano gli stilemi techno ma paiono volteggiare più su frequenze ambient che altrove e la voce appare e scompare; ma quando c’è è tutt’altro che un accessorio: da un lato all’altro dell’album, S.O pare il risveglio da una nottata inattesa e 8 una lunga ascesa – dolce ed ossessiva – verso una nuova tranquillità. Nel mezzo un omaggio ad Arthur Russell (Arthur), melodie a propulsione lenta come Anxi. o puro synth pop angolare (Evolution).
Facile leggerle questo album come una somma di ciò che ha portato Kelly Lee Owens fino a qui più che come un abbozzo di idee in progressiva evoluzione; ma è club music da salotto, un angolo di pace interiore per animi insicuri e turbolenti, per sognare ad occhi aperti attraverso il casino: come diceva John, «la vita è quello che ti capita mentre sei impegnato a fare altri piani».
Lei – gallese, ex infermiera in una clinica oncologica di Manchester – dice che i migliori consigli per questo debutto li ha avuti dai suoi pazienti.
Forse è difficile crederle conoscendo i suoi trascorsi di bassista negli History Of Apple Pie, nei negozi di dischi e le sue collaborazioni con alcuni nomi notevoli come Erol Alkan e Daniel Avery; però ecco, l’orizzonte tristemente ristretto di quei pazienti ha certamente liberato Kelly Lee Owens da ogni possibile esitazione, ha innestato in lei un deciso senso di urgenza e – soprattutto – l’ha resa avida di libertà.
Il risultato, vitale, è sufficientemente leftfield da annullare ogni pretenziosità, ma pettinato quanto basta per allontanarsi dal puro homemade: Kelly Lee Owens oscilla in un limbo di minimalismo dreamy in cui il ritmo non prende mai il sopravvento, beat e sintetizzatori basilari adottano gli stilemi techno ma paiono volteggiare più su frequenze ambient che altrove e la voce appare e scompare; ma quando c’è è tutt’altro che un accessorio: da un lato all’altro dell’album, S.O pare il risveglio da una nottata inattesa e 8 una lunga ascesa – dolce ed ossessiva – verso una nuova tranquillità. Nel mezzo un omaggio ad Arthur Russell (Arthur), melodie a propulsione lenta come Anxi. o puro synth pop angolare (Evolution).
Facile leggerle questo album come una somma di ciò che ha portato Kelly Lee Owens fino a qui più che come un abbozzo di idee in progressiva evoluzione; ma è club music da salotto, un angolo di pace interiore per animi insicuri e turbolenti, per sognare ad occhi aperti attraverso il casino: come diceva John, «la vita è quello che ti capita mentre sei impegnato a fare altri piani».