Appunti

Marley

Penso che girare un film su un personaggio del genere sia complicatissimo: Bob Marley era un tale intreccio di spiritualità (anche casereccia), tradizione, genio ed egoismo che pare impossibile seguire un’unico filone narrativo.

Kevin Macdonald in qualche modo è riuscito a coniugare tutto questo, e a condensarlo in meno di tre ore in un documentario che merita di essere visto anche dai non appassionati di reggae.

Solleva molte questioni, indirettamente: Marley era un furbo o un sincero appassionato? Era interessato più al successo o davvero a diffondere nel mondo la storia del popola giamaicano? Ha usato il sistema o ne è stato vittima?

Marley non è il classico documentario celebrativo, prova ne siano le testimonianze di Cedella, una delle sue figlie. Lei, lungi dal mitizzarlo, rivela l’assenza – fisica ed emotiva – di un padre: e non perché si trovasse a spartirlo con folle adoranti, ma perché Marley era un man of the people, e tra la sua gente amava stare, e la sua gente era la sua famiglia.

Paolo

A mio giudizio, il maggior merito del documentario di Kevin MacDonald è la capacità di non prendere una posizione, di non voler direttamente esaltare la figura di Bob Marley, mantenendo la giusta distanza e attenendosi ai fatti della Storia e alle opinioni dei testimoni.

Al netto della parzialità (in senso quantitativo) fisiologica di qualsivoglia racconto limitato alla durata di un prodotto cinematografico e della parzialità (in senso qualitativo) di coloro a cui viene chiesto di parlare di un mito, sia egli un padre, un amico, un marito o un contemporaneo, emergono alcuni aspetti della figura del Re del Reggae che meritano più di una riflessione.

Se infatti l’intera vicenda potrebbe essere riassunta nella più classica trama del figlio di nessuno venuto dal nulla che insegue il successo per una vita intera, lo raggiunge (con i relativi pro e contro) passando dall’estrema miseria alla notorietà globale e, sul più bello, tradito dal destino (o dall’insaziabile sete di arrivare, anche sacrificando la propria stessa vita) muore, a voler leggere la figura di Marley ad oltre trent’anni dalla morte si intuisce anche altro.

La sensazione è che, anche nel suo caso, il culto travalichi l’uomo e i suoi intenti. Il fenomeno Marley (coevo e soprattutto successivo) ha mantenuto solo in parte aderenza con l’identità dell’uomo e il significato delle sue idee. Come troppo spesso accade, è stato principalmente sostenuto e alimentato ciò che del suo messaggio poteva, ed è stato, utile per vendere la sua immagine e i prodotti legati al suo nome.

Se da un punto di vista meramente artistico la produzione di Bob Marley è indubbiamente fondamentale per la storia della musica per l’influenza che ha avuto sulle generazioni di musicisti successive e se il messaggio politico, sia nella sua accezione più superficiale e massificata (la pace nel mondo), sia in quella più identiaria (la dignità e il riscatto delle popolazioni nere deportate o soggiogate nei paesi colonizzati dai bianchi) ha certamente avuto una portata e una diffusione probabilmente superiori a quanto egli stesso pensasse, resta il fatto che anche in questo caso non è tanto la realtà dei fatti o delle intenzioni a diffondersi, ma l’immagine e la percezione che di esse si ha e prolifera.

Marley cantava il riscatto, la rinascita, una rivoluzione se necessario violenta, non una pace gandhiana. Basava il suo credo su una religione, un’illusione che, come tutte le fedi, necessitava di un epica e di un simbolo, in questo caso incarnato addirittura in un uomo del proprio tempo (l’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié I). Non si intente qui mancare di rispetto alle convinzioni di alcuno, ma è un po’ come se in tutto il mondo oggi si celebrasse il mito di un gruppo vocale di Testimoni di Geova, un ensamble folk di monaci tibetani o una band metal di Templari (ops!)…

In conclusione, ciò che emerge è la vicenda indubitabilmente speciale e degna d’ammirazione di un uomo capace di elevarsi dal nulla e raggiungere, grazie al talento, alle proprie forze e alla volontà, una notorietà planetaria per sé, per la propria musica, e (e qui sta l’equivoco maggiore) per parte del proprio messaggio.

Come spesso accade, anche oggi che la comunicazione è tanto massificata e prevalente, mittente e destinatario non si comprendono e il concetto, filtrato da tante, troppe, variabili, è inevitabilmente corrotto, semplificato se non addirittura distorto.

Così Marley, cantore della rivalsa africana sui popoli oppressori in nome di un imperatore etiope eletto a reincarnazione di Cristo, è oggi simbolo della pace globale; il rastafarianesimo, credo religioso, e in quanto tale fisiologicamente parziale e contraddittorio, è una moda per capelli o una scusa per fumarsi uno spinello; il reggae, identità musicale di un popolo (grazie a Marley, certamente), cliché saccheggiato ovunque si voglia aggiungere una parvenza di libertà, leggerezza o, peggio, concessione antisociale, magari priva di regole.

Ma chi è stato quindi Robert Nesta Marley? Un grande musicista? Un rivoluzionario? Un predicatore? Un uomo dall’inaccontentabile necessità di rivalsa e riscatto?
Guardate il documentario, scegliete la versione che più vi soddisfa e fatevi ispirare.
Mal che vada avrete ascoltato un disco in più (e a noi questo non può che far piacere).

P.S. Tanto per capirsi, Wikipedia Italia sul Rastafarianesimo apre così:

«Il mio compito è di far rimanere vivo e diffondere nel mondo il messaggio di Marcus Garvey, il padre spirituale della Giamaica …
Voglio muovere il cuore di ogni uomo nero perché tutti gli uomini neri sparsi nel mondo si rendano conto che il tempo è arrivato, ora, adesso, oggi, per liberare l’Africa e gli africani.
Uomini neri di tutto il mondo, unitevi come in un corpo solo e ribellatevi: l’Africa è nostra, è la vostra terra, la nostra patria …
Ribellatevi al mondo corrotto di Babilonia, emancipate la vostra razza, riconquistate la vostra terra.»
(Bob Marley)

Andrea



 

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