Improbabili buone nuove da Lenny Kravitz: Black And White America è un disco molto buono, anzi, è il migliore da molti anni a questa parte.
Folgorato da un non precisato documenario in cui (troppi) bianchi conservatori dichiaravano di voler tornare ad un’America arcaica, inneggiando alla supremazia della propria razza, Lenny riscopre e rivendica le proprie radici sociali e musicali.
Da questo punto di vista già l’artwork scelto lascia spazio a poche interpretazioni: ricordi com’eravamo e da dove veniamo? Ricordi quanto abbiamo lottato per l’uguaglianza? Come a dire: il percorso non finisce con l’elezione di Obama.
Stupisce piacevolmente tutta questa enfasi da parte di un artista che negli ultimi dieci anni aveva preso l’andazzo di badare più al proprio successo, a piazzare singoli ottimi solo per l’airplay commerciale, a posare per servizi di moda, ad apparire ovunque (film, riviste, gossip), tanto da far pensare che potesse esistere un Lenny Kravitz indipendentemente dalla musica.
Black And White America ha il pregio di riportare finalmente in primo piano il suono. Accasatosi alla Roadrunner Records (comunque non proprio un’etichetta indie) dopo lunghi e remunerativi anni alla Virgin, Kravitz suona e produce il tutto con il solo aiuto di Troy “Trombone Shorty” Andrews e Craig Ross alle chitarre, registrando a Parigi e alle Bahamas.
Il risultato è un disco lungo, a fuoco e a tratti adrenalinico, che omaggia le radici della black music e, nella sua varietà di stili, cerca di riscoprire il funk nella sua originaria accezione di musica di protesta.
Certo, non mancano i lati negativi: la title track suona più Jamiroquai 1993 che Sly & The Family Stone, Come On Get It sembra una versione annacquata dei Red Hot Chili Peppers anni ’80, e ci sono anche le solite spacconate da macho in tipico Lenny Kravitz style (Superlove, Rock Star City Life, Boongie Drop...).
Però Black And White America funziona bene: riesce a trovarsi a metà via tra consapevolezza sociale ed intrattenimento puro. E chi se lo aspettava..?
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