Un faccione norvegese e sorridente, in vago stile foto segnaletica, e tre sole tracce: ecco il debutto di Hans Peter Lindstrøm (per tutti, semplicemente, Lindstrøm).
Ovvero: il primo vero album dopo una lunga serie di ep, remix, collaborazioni con il compare produttore (anche lui norvegese) Prins Thomas; dopo aver passato l’infanzia a suonare il piano in un coro gospel e la gioventù ad imitare John Lord in una band tributo ai Deep Purple, e poi ancora, ad ascoltare Dylan, piantare lì Stavanger e trasferirsi ad Oslo a studiare letteratura e – finalmente – ad approcciare la musica elettronica con lo sguardo curioso di chi vuole capire come si fa.
È questo il metodo che Lindstrøm ha mantenuto inalterato negli anni: l’approccio appassionato e scientifico con questo tipo di musica, l’attenzione di chi non ha interesse a ballare, ma al massimo a far ballare, a voler capire come creare quella magia che mette in moto le gambe delle persone e – troppe volte – spegne il cervello; doveva pur esserci una terza via tra la disco e l’IDM (intelligent dance music).
Insomma, Lindstrøm non avrà inventato da solo la space disco, influenzato com’era da uno sconfinato background musicale (da Morricone alla swingin’ London, da Peter Gordon e l’italodisco al folk), ma con Where You Go I Go Too l’ha portata ad un livello ad oggi ineguagliato.
La title track da sola dura mezz’ora: è un lento bruciare, incandescente e kosmico. I bassi che si affrettano, le tastiere che entrano tardissimo (8′) quando la ritmica ormai sembra aver preso il sopravvento. Un incedere costante e devastante come un panzer stellare, epico. Lindstrøm gestisce il minutaggio rendendo Where You Go I Go Too una bazzecola per le orecchie: al posto di una suite, è un ottovolante di emozioni, distillate, accresciute, e poi affossate e acnora ricostruite con perizia sonica.
Grand Ideas (10′) flirta da subito con il pop sintetico e sudato, quello di Moroder e – appunto – Peter Gordon, e lancia The Long Way Home: un’altra lunga rincorsa spaziale in cui i beat poco a poco si diradano e collassano prima della frenesia primordiale e finché con un synth ruffianissimo Lindstrøm ci impacchetta tutti e ci rispedisce, con un salto temporale clamoroso, dentro un filmone seventies. Tutti con il cocktail (d’amore) in mano, vestiti di seta e paillettes, a provarci con norvegesi biondissime.
Catartico e sconvolgente.
Pingback: Lindstrøm & Christabelle - Real Life Is No Cool – Non Siamo Di Qui