Registrato nell’estate del 1979, Banana Republic è uno di quei (pochissimi) dischi dal vivo epocali d’Italia, e curiosamente è in parte merito di Walter Veltroni.
Veltroni, a cui va almeno riconosciuto di aver sempre creduto nella cultura, nel 1979 era il presidente della Federazione Giovani Comunisti Italiani (FGCI), e per primo riuscì a portare Lucio Dalla e Francesco De Gregori insieme sullo stesso palco.
Era l’8 luglio del 1978 e De Gregori aveva appena pubblicato De Gregori, e allo Stadio Flaminio tenne un concerto organizzato dalla FGCI (chissà, anche un po’ per riconciliarsi con i compagni dopo il “processo” subìto al Palalido due anni prima), che – nessuno sapeva, forse molti speravano – sarebbe stato il primo embrione della collaborazione con Dalla.
Di lì, curiosamente, i due lavorarono in studio insieme solo per Ma Come Fanno I Marinai, preferendo condividere il palco. Il tour Banana Republic fece il tutto esaurito un anno dopo quell’episodio, e il disco che ne venne ricavato vendette mezzo milione di copie; però, è tanto bello quanto riduttivo: per una visione d’insieme di quella (breve) esperienza, meglio dare un’occhiata all’omonimo film documentario.
Banana Republic, così come da allora lo troviamo sugli scaffali dei negozi, è ancora eccitante trent’anni dopo (altro che il pur buono Work In Progress).
È tutto il complesso a girare bene, e di questo c’è da dare giusto merito a Ron, che curò ogni arrangiamento, compresa una versione rock’n’roll di Gelato Al Limon di Paolo Conte, e quella zeppa di reggae di 4/3/43. E ancora, Gaetano Curreri e tutto il resto della banda che accompagnava Dalla, di lì a poco sarebbero diventati gli Stadio.
Ai punti, in Banana Republic sembra presente più De Gregori che Dalla: è lui che si inventa di adattare la canzone di Steeve Goodman che dà il titolo al progetto, sono suoi i brani che trovano il maggior spazio (Santa Lucia, Buffalo Bill, Quattro Cani), mentre Dalla, al di là di Piazza Grande e 4/3/43, s’inserisce nello spettacolo esattamente come siamo lo ricordiamo e immaginiamo: istrionico, soul, vagabondo. È però il suo tocco che alla fine rende grande Banana Republic.
Riascoltare questo album oggi è una gran bella curva nella memoria.
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