Diciamolo subito: questo non è un coccodrillo, nemmeno tardivo.
Piuttosto, volevamo mettere insieme alcune cose che l’ondata di commozione che ha riempito i social network (e non solo) nei giorni scorsi ha (ri)portato a riva.
Dopo la tempesta, è emerso qualcosa di Lou Reed che ci era sfuggito, qualcosa di Lou che avevamo dimenticato, qualcosa che post mortem viene inevitabilmente letto con occhio diverso.
Magari a partire dal fatto che, con molta ironia, in tanti gli abbiano (e per forza…) ormai perdonato Lulu, quel papocchio combinato nel 2011 con i Metallica – e che lui amava chiamare, senza nessuna possibilità di contraddirlo, rock sotto steroidi, proveniente da un posto in cui darkness is darkness, come raccontò all’epoca XL.
O magari, come questa foto di Lou su una porta che immaginiamo di chissà quale bettola, un’instantanea scattata da Terry Richardson e (molto, molto sinistramente) pubblicata sui profili ufficiali facebook e twitter a quanto pare prima del trapasso.
Poi inevitabilmente c’è chi ha tirato fuori l’album delle vecchie foto, e tra tutti ci piace segnalare l’improbabile compresenza di Lou Reed e i Duran Duran, testimoniata da John Taylor con questo scatto datato 1986, e quella in cui Morrissey abbraccia una tartaruga delle Galapagos il Nostro: a ben vedere, pur se in tempi diversi, hanno rappresentato – ciascuno per la sua sponda di Oceano – la decadenza (vissuta).
Non che il Moz abbia mai nascosto la sua venerazione per Reed: raccontò persino di quanto fosse stato sorprendente andare a sentirlo a 12 anni, da solo, a Manchester, ed essere sopravvissuto.
Pessimo, sorprendente ed ingessato allo stesso tempo Roberto Formigoni che – non si capisce se in un impeto di eccelsa paraculaggine o in una rievocazione di improbabili tempi che furono – ha confessato “il suo rock mi ha sempre coinvolto“.
Sorprendente e basta, invece il Cardinale Ravasi che ha dimostrato di conoscere Pefect Day, twittandone una strofa e “difendendo” poi la sua posizione: “non fatevi illusioni: Dio non si lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che ha seminato (Gal 6,7 ripreso da Lou Reed in Perfect Day)” – vuole forse suggerire che al buon vecchio Lou non spetta il paradiso..?
La DFA Records ha rispolverato la recensione che nel 2006 Reed aveva scritto sui Black Dice, ma resta un insuperato momento vederlo confrontarsi con l’irruente modernità di Kanye West nell suo lungo scritto su Yeezus, in cui traccia paragoni con il suo Metal Machine Music e, a conti fatti, incorona West come l’unico che stia alzando costantemente il livello del gioco.
Il Guardian ha riproposto una magnifica intervista concessa nel 1973 a Lester Bangs, Internazionale ha aperto una gallery con delle foto da brivido, che vanno dai tempi dei Velvet Underground, passando per le frequentazioni con Warhol, Bowie e Jagger, fino al periodo Berlin, a Laurie Anderson giù fino allo scorso anno.
Repubblica, che a caldo aveva banalmente titolato “scompare il poeta del rock” (e quando se ne andrà Dylan…?) , ha poi corretto il tiro pubblicando, pur se al minimo sindacale, una raccolta dei suoi migliori versi.
E poi John Cale, certo, ma anche un altro che di NY ha fatto la storia, David Byrne, ha ricordato certi anni nell’Upper East Side in cui un embrione di Tentative Decisions dei Talking Heads veniva trasformato da Reed (già una rockstar) in una ballad non distante da Pale Blue Eyes, o Candy Says, alle prime ore del mattino…. “il suo lavoro con i Velvet è stato una delle ragioni principali per cui mi sono trasferito a New York, volevo stare in una città che curasse e sfamasse quel tipo di talento“.
Ovviamente, non possiamo pretendere che quello che viene scritto qui possa catturare la medesima sensibilità degli editorialisti del New Yorker, del New York Times o di Rolling Stone; tra tante banalità nostrane, però, ci piace segnalare invece un momento rivelatore del Lou Reed degli ultimi anni, quello raccontato da Fabio De Luca (Weekendance), ovvero: trovarsi al telefono, non più tardi di un anno or sono, con il mito, (quasi scazzare) per una scemata, e scoprire in fondo una visione comune.
Chiudiamo con le parole di Patti Smith, un ricordo ancora più emozionante emerso proprio ieri: “… non capivo il suo comportamento così altalenante o l’intensità del suo umore, che cambiava esattamente come il suo modo di parlare: da velocissimo a laconico. Tuttavia comprendevo la sua devozione verso la poesia e capivo la qualità che le sue performance avevano, capaci di condurti in un altro mondo. Aveva occhi neri, una t-shirt nera, la pelle pallida. Era curioso, a volte sospettoso, un lettore insaziabile, e un esploratore sonoro. Uno strano pedale per la chitarra per lui era solo un altro tipo di poesia. Era lui il nostro legame con l la famosa aria della Factory. Era lui che faceva ballare Edie Sedgwick. Era a lui che Andy Warhol sussurrava nell’orecchio. Lou trasportò nella propria musica la sua sensibilità verso arte e letteratura. Era il poeta newyorkese della nostra generazione, che sosteneva i disadattati di questa città nello stesso modo in cui Whitman aveva fatto con i lavoratori e Lorca con i perseguitati…“.
In fin dei conti Lou Reed è stato un poeta, un chitarrista esploratore, un menestrello drogato.
Ma quello che emerge ora è che è stato soprattutto un padre: per un mucchio di artisti, certo, ma anche per tutti quelli che, in qualunque modo, volontariamente o meno, hanno a che fare con l’abisso.
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