Dischi

Miles Davis – Nefertiti

Nefertiti è uno di quegli universi che esistono solo a tarda notte, al buio, nei quali ogni nozionismo è privo di significato.

In che anno è stato registrato (nel giugno ’67 e in parte nel luglio successivo, pochi giorni dopo la morte di John Coltrane), quando è stato pubblicato (1968), chi accompagna Miles Davis (tra gli altri, nientemeno che Wayne Shorter e Herbie Hancock), dove stava andando lui (verso l’elettrico: è il suo ultimo album acustico) e chi ha scritto questi motivi (Shorter e Hancock soprattutto, nessuno Miles): tutte questioni che in effetti scompaiono di fronte alla schiettezza furiosa di questo suono.

Nei quasi otto minuti iniziali il tema evocativo di Nefertiti si ripete ed è invece la sezione ritmica ad agire da solista, come imbizzarrita; senza soluzione di continuità, Fall è zeppa di brevi assolo (compreso quello di basso ad opera di Carter) e nella successiva Hand Jive lo spirito di improvvisazione che pregna questo album – del tutto privo di sequenze armoniche predefinite – emerge ancora più evidente; in Madness la tromba di Miles emerge da una breve e pulsante figura ritmica di basso/batteria/pianoforte e si allunga fino a lasciare tutto lo spazio al sassonfono di Shorter;

È come passeggiare, poi correre, poi voltarsi, fermarsi, andare di qua o di là senza ostacoli, ma bendati.