Sì, ok Moby il botto lo aveva fatto tre anni prima con Play e da sempre il successore di quell’album risente di un certo scetticismo.
Ma 18, uscito nel 2002, non è un passo indietro quanto piuttosto una conferma.
Certamente è troppo lungo, diciotto brani (appunto) per più di un’ora e dieci minuti, ma abbonda di momenti intensi, a partire dall’iniziale We’re All Made Of Stars – una specie di aggiornamento del Bowie berlinese trascinato su un dancefloor a gravità zero (e che sì, probabilmente rimane il momento più esaltante del disco).
Altrove 18 è un poderoso gospel / blues elettronico e atmosferico (In This World, In My Heart, Signs Of Love), snocciola una serie di bozzetti di abbandonata disillusione (Great Escape, One Of This Mornings, Sunday, Harbour) e non guarda molto a far divertire (peccato mortale per un dj) quanto a commuovere (Extreme Ways, tesissima); Jam For The Ladies, cui partecipa Angie Stone su un beat grassissimo, è un discorso a parte, l’ennesima digressione di Moby nelle strade di NY affollate di breakdancers.
Sì, riascoltato oggi questo disco ha perso parte della sua freschezza e della sua novità; e lui, Richard Melville, sono dieci anni che non combina granché di significativo. Ha il merito di avere inchiodato in due dischi un suono in transizione: il momento in cui l’elettronica si lasciava alle spalle gli anni ’90 del trip hop e approdava nel nuovo millennio.
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