Appunti

(my) Pet Sounds

La mia prima copia di Pet Sounds fu un cd di quelle edizioni uscite in edicola con L’Espresso (credo), quindi sul lato aveva stampato il logo della rivista e l’immagine in copertina più piccola per lasciare posto ad una qualche altra scritta che aveva a che fare con l’iniziativa editoriale.

Per questa ragione soprattutto – perché potesse entrare ufficialmente a far parte della mia collezione – molti anni dopo (molti di più di quanti ce ne siano voluti per mettere insieme l’intera discografia dei Beatles, o dei R.E.M. o dei Nirvana) lo ricomprai in una versione più seria ed esteticamente appagante.

Comunque, ad oggi non ho assolutamente idea del perché ad un certo punto della mia formazione musicale di adolescente avessi sentito il bisogno di acquistare quella prima copia di Pet Sounds: alle scuole medie la cosa più fresca che ci veniva propinata era Vivaldi e in ogni caso per molto tempo prima dell’ascolto ricordo di essere rimasto fermo nella mia convinzione che si trattasse di uno strano album in cui un matto aveva deciso di registrare gli animali della sua fattoria.

Al di là di questo abbaglio di gioventù, passato un primo ascolto (ed un secondo, ed un terzo) in cui l’ho trovato semplicemente soffocante, negli anni Pet Sounds è diventato il mio personalissimo emblema della scissione tra gusto personale e valore assoluto.

Nel senso che come tutti – almeno, tutti quelli capaci di intendere e di volere e dotati di un minimo di obiettività – lo trovo assolutamente geniale, rivoluzionario, sconvolgente (nel senso: capisco e condivido le ragioni per cui è considerato tale); ma… mi piace?

Me lo sono chiesto spesso: mi piace davvero? E che valore ha per me?

Mettiamola così: se qualcuno mi obbligasse a scegliere 10 album per poi di esiliarmi su un’isoletta deserta (ne esistono ancora?), Pet Sounds non sarebbe tra quelli.
Il che, converrete, non vuol dire che non lo apprezzi; è solo che credo di poter farne a meno e vi svelo una cosa: in quest’ottica prima di Pet Sounds ci sono una vagonata di album, compreso – AHEM! – un best of dei Beach Boys.

E allora qual è il punto?

Lo ascolto e riascolto (anche in questo momento) e alcune delle sue melodie mi abbagliano in modo improbabile.
Ma ecco, nella sua interezza certi riflessi barocchi me lo fanno venire a noia, e ogni tanto mi lascio andare pensando che sia una specie di triste lagna ingarbugliata.
Poi mi riprendo, ascolto roba come Sloop John B., God Only Knows, Wouldn’t It Be Nice, I Know There’s An Answer e mi dico che devo essere proprio matto, perché ci leggo una gioia liberatoria indescrivibile a parole, qualcosa che pulsa nel mio cervelletto in modo ascensionale tipo Coltrane (altro mistero ad oggi irrisolto).

In fondo, scopro, ciò che amo di questo disco non è tanto la musica in sé, ma quello che riesce a rappresentare: mi affascina il fatto che si tratta di un’opera libera e per certi versi illogica (viste le circostanze in cui è nata) in cui si misura un ego del tutto fuori controllo; adoro il fatto che il suo autore la ritenesse in qualche modo incompiuta e ne abbia inseguito a lungo i fantasmi, riuscendo ad acchiapparli una sola volta (Good Vibrations) prima di ammattire e rimetterne insieme i cocci soltanto quando ormai l’intero universo aveva capito, accettato, glorificato e in parte dimenticato (Smile).

Quello che trovo davvero stimolante ed unico in Pet Sounds non è quindi tanto il suo suono, quanto piuttosto il fatto che sia una crudissima proiezione di autismo che nessuno è stato in grado di fermare e che ha finito per lasciare un improbabile marchio sull’arte del ‘900 e oltre, sfidando ogni logica.

(P.)

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