Appunti

Paint It, Black

I see a red door and I want it painted black
no colors anymore I want them to turn black
I see the girls walk by dressed in their summer clothes
I have to turn my head until my darkness goes…

Al John Lennon del 1970, quello della famosa intervista per Rolling Stone, sarebbe molto piaciuto «stendere un elenco di ciò che abbiamo fatto noi e di quello che gli Stones hanno prodotto un paio di mesi dopo: per ogni nostro fottuto album o canzone, Mick ha ripetuto esattamente la stessa cosa. E’ un nostro imitatore. Mi piacerebbe che almeno uno di voi cazzo di giornalisti underground lo facesse notare. Prendi Let It Bleed.»

O prendete Paint It, Black ed il suo sitar.

Non furono in pochi, all’epoca, a chiedere ai Rolling Stones di chiarire da dove venisse l’ispirazione, se – per caso – c’entrava qualcosa Norvegian Wood, pubblicata qualche mese prima dai Beatles su Rubber Soul

Jagger si limitò a dire che si trattava di uno strumento come un’altro trovato in studio; secondo George Harrison, più diplomatico di Lennon, semplicemente Brian Jones – che ogni tanto si presentava a casa sua completamente fuori – gli aveva chiesto di mostrargli come ricavare suoni sensati da quello strano aggeggio importato dall’India.

Non sapremo mai la verità e poco importa, anche perché il sitar è solo uno degli elementi che rende Paint It, Black quella che è.

Ad esempio, è storia e non più leggenda che Bill Wyman stesse semplicemente cazzeggiando con i pedali dell’organo – prendendo per il culo Eric Easton che si vantava di aver fatto qualche anno nello showbiz, mentre cercava qualcosa per dare profondità al suono del suo basso – quando inciampò in quello stomp cavernoso che fece decollare le registrazioni, sul punto di essere abbandonate (almeno per quel giorno).

stones_paint_it_blackE’ certo poi che quella virgola è di troppo, che non c’è nessuna connotazione razzista nel titolo: si tratta semplicemente di un errore (o un tocco esotico) della Decca: sarebbe (stata) Paint It Black.

Curiosamente, Keith ogni volta si scorda come suonarla – sarà che ancora oggi non è soddisfatto del risultato («è approssimativa, come se l’avessimo tenuta così pensando che, a registrarla di nuovo, non sarebbe uscita altrettanto bene.. in effetti è andata proprio così»). 

Registrata nel marzo del 1966 durante le ultime sessioni dalle quali prese vita Aftermath, Paint It, Black venne lanciata come singolo sul mercato un mese dopo quel disco (è presente solo nella sua versione americana) e finì per arrivare al n. 1 da entrambe le sponde dell’Atlantico (prima canzone con il sitar ad avere tale onore).

A contribuire al suo successo – e all’immortalità – non c’è solo il suo double groove gitano (e molto hip), già particolarissimo per l’epoca, o la circostanza che, di fatto, apre il periodo psichedelico degli Stones (fortunatamente chiuso in poco più di un anno).

Il testo oscuro e mistico di Jagger la rendono uno dei più potenti viaggi mai sentiti nell’abisso dell’animo umano; manifesta una volontà cattiva, una specie di ego annientatore tanto suggestivo che Paint It, Black è stata efficacemente usata un milione di volte per suggerire l’affascinante insensatezza della violenza: tra tutte queste, Stanley Kubrick la usa per tramortire definitivamente lo spettatore sul finale di Full Metal Jacket.

Comunque, se la suonate (l’originale o una delle innumerevoli cover, compresa quella di Caterina Caselli, ingiudicabile) sappiate che nemmeno un penny va ai Rolling Stones: ad inizi ’70 pensarono bene di cederne i diritti ad Allen Klein per sbarazzarsi di lui e della sua gestione truffaldina.

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