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Panda Bear – Person Pitch

pandabear_personpitchPerson Pitch può essere qualunque cosa.

Una carovana, lo sciabordio del mare sulla chiglia di una nave, una luce in cima all’Everest, cemento che si squaglia al solleone, oppure nebbia, un treno che deraglia al rallentatore, o il colore degli occhi della persona accanto alla quale vi svegliate.

Ancora, può durare una intera vita o durare il tempo passato a guardare una goccia di rugiada scivolare giù da un petalo.

Di cosa è fatto?
Di voci e ritmiche; di sbatacchi e di echi; di giustapposizioni e frammenti; di incubi e gioia corale.

La sua grandezza sta nell’incessante scivolare del suo baricentro verso l’ipnosi, nel fatto che narcotizza come un carillon e un’attimo dopo resuscita con la prepotenza di una doccia ghiacciata.

Il terzo disco solista di Noah Lennox – in arte Panda Bear – ha il suono di maestosa allucinazione sciamanica.

Se vi risulterà incomprensibile – e se anche dopo ripetuti ascolti non vi sarà chiaro perché è considerato, ed in effetti è, uno dei più folgora(n)ti album dello scorso decennio – ricordate che «il compito di un artista non è essere comprensibile, ma essere».

Lo diceva John Cage, e – qualunque cosa significhi – si sposa perfettamente a Person Pitch.

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