Dischi

Paul McCartney – Egypt Station

Paul McCartney non ha nulla da dimostrare almeno dallo scioglimento dei Beatles (se non dal 1966, anno di Revolver), ma ci si aspetta sempre il meglio.

Ogni tanto è andato sotto le aspettative, oggettivamente ed inevitabilmente enormi, e leggendo in retrospettiva il suo percorso solista pare di scorgere la ragione di alcuni passaggi a vuoto: lui sembra vivere di una vena compositiva e melodica tanto traboccante da avergli impedito, talvolta, di distinguere tra creazioni buone e meno buone.

È da un pezzo, però, che si è rimesso in carreggiata e album come New o Chaos And Creation In The Backyard sono lì a dimostrarlo. Ma Egypt Station li supera di una spanna abbondante.

McCartney si è mosso dall’idea di non poter competere commercialmente con il pop effimero e consumistico creato apposta per le classifiche, ma lo ha comunque sfidato, portandosi a bordo un produttore come Greg Kurstin – il cui curriculum è fitto di nomi come All Saints, Lily Allen, Britney Spears, Sky Ferreira, Dido, Kelly Clarkson, Adele, ma a lui molti altri si sono rivolti proprio per cercare quella cosa lì (su tutti: Liam Gallagher per Wall Of Glass, Beck per Colors, i Foo Fighters di Concrete And Gold) – e trascinandolo nel processo compositivo, tornando ad utilizzare lo studio di registrazione come un grosso laboratorio.

Insomma: se nel recente passato erano stati i produttori a trascinare McCartney nel loro mondo, rivestendo le sue canzoni ciascuno con il proprio tocco magico, stavolta è lui a trascinarne uno nel suo universo.

Il risultato di questa danza con il diavolo è un’opera coesa che fotografa una performance creativa, straordinaria, ben lontana dalla perfezione formale dell’ultimo New (paradigmatiche le percussioni su Come On To Me) e certamente ispirata a livello di songwriting.

L’unica eccezione è Fuh You, non a caso prodotta da Ryan Tedder (militanza negli OneRepublic e curriculum ancora più commerciale di quello di Krustin) e dichiaratamente concepita per essere una hit. E funziona, cazzo se funziona: fa saltare dalla sedia.

Tutto si mescola a perfezione a creare un disco che volutamente ha un inizio ed una fine, un album inteso nella maniera più alta del termine e non una fredda raccolta di brani; e se Egypt Station – chiamato così dal dipinto in copertina, che McCartney creò a fine anni ’80 – non è un concept album è perché non ha un tema o uno stile dominante: l’urgenza di creare contrapposta a tutte le scorciatoie attraverso le quali la tecnologia può alimentare la nostra pigrizia (Do It Now), racconti esotici che sembrano una continuazione di Ob-La-Di Ob-La-Da (Back In Brazil), esortazioni alla pace (People Want Peace, che senza essere Imagine è comunque molto migliore di quanto il suo titolo possa suggerire), serenate alla propria chitarra (Confidante), smarrimenti finora inediti nei molti racconti di McCartney, inguaribile ottimista (I Don’t Know), l’amore come esperienza assoluta, guaritrice (Dominoes, Happy With You) e anche scema (Fuh You).

Inizia con Opening Station e finisce nello stesso punto con Hunt You Down/Naked/C-Link ed è come il ritorno sulle scene del Sergente Pepe e della sua Banda dei Cuori Solitari. Non c’è una melodia che passi inosservata, è tutto assolutamente contagioso e, allo stesso tempo, sinceramente profondo.

Quanti altri album di questo signore potremo avere l’onore di ascoltare? Se Egypt Station fosse anche l’ultimo sarebbe un lascito incredibile, la nuova Stele di Rosetta per tutti coloro che vogliono misurarsi con la musica pop, sfidare l’ignoto e, da ultimo, il proprio ego ricominciando ogni volta come la prima volta.