Dischi

Paul Weller – Heavy Soul

Anticipato nell’agosto del 1996 dal singolo Peacock Suit, il seguito del fortunatissimo Stanley Road è Heavy Soul, con il suo artwork degno di un candy shop di New Orleans ed il suo approccio essenziale (se non muscolare).

Pochissime sovraincisioni, suono asciutto, tanto che lo stesso Paul Weller arriverà a definire questo disco «intransigente» (nelle note c’è anche un ringraziamento particolare: «to anyone whosoever slated me – fuck you»).

Un mood le cui cause sono facilmente riconducibili all’aria rarefatta che si respira sulle vette alle quali il Modfather si era progressivamente riavvicinato dall’inizio del decennio ed infine raggiunte con Stanley Road: «era notte fonda. Una strana situazione perché tutto girava molto bene per me, la gente mi adorava e tutte quelle stronzate, vendevo un sacco, ma allo stesso tempo avevo rovinato il mio matrimonio con Dee [Dee C. Lee, il divorzio arriverà nemmeno un anno dopo, n.d.r] e l’avevo presa per il culo. Mi sentivo molto male e molto in colpa. Non mi stavo affatto godendo il successo, mi rifugiai nell’alcol, nelle droghe e in tutti quei casini. Tutto quello di cui mi sentivo responsabile – avevo deluso lei e la mia famiglia – finì per crollarmi addosso. Ecco perché questo album suona così arrabbiato» (così nel lungo editoriale dedicatogli quest’anno dal Q Magazine per il lancio di A Kind Revolution).

Heavy Soul, però, è tutt’altro che fuori fuoco: è fatto di una ruvidezza che chiude idealmente la prima fase della carriera solista del Modfather e rimarrà il suo lavoro migliore per quasi un decennio, sino ad As Is Now (2005).

Trovano posto qui Science, Friday Street e (appunto) Peacock Suit, certamente da annoverare tra gli highlights del canzoniere di Weller, che a conti fatti oscurano altri episodi notevoli.

Tra questi, anzitutto la title-track, suddivisa in due parti: per quanto la prima apra l’album con finta spensieratezza ed una scrittura un poco pretenziosa, la seconda è una reprise strumentale che muove da un’orchestrazione svolazzante per buttarsi in una riuscitissima jam dal sapore seventies; la ballata I Should Have Been There To Insipire You (assolo fulmineo e illuminante), dalla quale Paolo Hewitt prenderà spunto per una digressione sulla scarsa attitudine del Modfather a chiedere scusa (nel suo controverso libro Paul Weller, The Changing Man), giustamente notando che si tratta di un’apologia che tralascia la parola «sorry», in favore di un evidente egocentrismo; l’acustica Going Nowhere, che ben riassume l’attitudine del suo autore: «I’ve nowhere to be, only leave some miles behind / and within me I see, there’s places I’ve yet to find».

Il tutto, appunto, senza contare la sfacciataggine working class di Science («all the study in the world does’t make it science»), l’estetica ascensionale di Friday Street e la vanitosa Peacock Suit.

Heavy Soul è generalmente sottovalutato: certo potrebbe non essere un passaggio fondamentale per studiare l’evoluzione musicale di Paul Weller, ma si rivela una chiave di volta per provare a comprenderne la personalità.