Appunti

Paul Weller sotto le stelle di Ferrara

… e così, nel giorno del mio 28° compleanno, sotto le stelle di Ferrara, sono tornato ad essere il ragazzino che aveva messo insieme e risparmiato quarantamila lire per comprare Stanley Road.

E questa è la cosa più grande che ho avuto l’altra sera.

In realtà, mi sono guardato anche molto in giro, lì, sul prato pieno pieno del Velodromo: cinquantenni che si davano all’air guitar, due insospettabili teenager che conoscevano tutte le canzoni a memoria, mamme, padri, figli, ferraresi in bicicletta, forestieri («aoé, dicci a Pòl che ci sta qua Pascale, n’amico suo!»), giovani mod, vecchi rockers dal cuore tenero,  tatuati cazzutissimi e qualche insospettabile milf che sventolava la Union Jack.

Ho provato a pensare se fosse concepibile dall’esterno un’accozzaglia di gente del genere.
No.
In realtà quello che ho provato a pensare è: se uno capitasse qui, ora, e vedesse tutta questa gente, quale senso ne coglierebbe?

Non capisco, insomma, e ancora m’arrovello, quale impatto possa avere la musica di Weller sull’uomo medio italiano (e non suo fan). Nemmeno so perché me lo chiedo, ma tant’è.

Lui, il Modfather, sbaglia solo a vestirsi con dei pantaloni gessati vagamente a zampa di elefante e una t-shirt (ma in effetti è quasi la sua solita tenuta da concerto estivo all’aperto), perché per il resto, come sempre, per farlo scendere dal palco bisognerebbe abbatterlo.

Coolness a palate a parte, un concerto attuale di Paul Weller è infatti un best of (o una soundtrack of our life, per alcuni), nel senso che i pezzi di Sonik Kicks – un po’ spogliati dei toni avventurieri del disco – stanno a tutto il resto che è una meraviglia.

E tutto il resto è tanto, dall’apertura un po’ a sorpresa con Wake Up The Nation (quando c’è ancora il sole: non si sta in pace nemmeno alle nove e quaranta di sera) ai richiami a 22 Dreams, agli immancabili pezzi dei Jam, compresa una Art School di cui mi ero – ahimè colpevolmente – dimenticato, e soprattutto Start!

Al fianco di Weller, i fidati Steve Cradock e Andy Lewis*, dietro, un batterista e un percussionista (strizzatissimo nel suo completo, e totalmente invasato) che potrebbero essere figli suoi, e alle tastiere un sosia panzuto di Liam Gallagher: praticamente una gang.

Tutto incredibilmente fantastico, compreso il momento in cui il Modfather guida la banda nella coda dub di Study In Blue. Chiude, dopo due ore sudatissime, Town Called Malice, ed è l’apoteosi.

Resta a fine concerto la sensazione strana di aver condiviso un rito privato con le altre migliaia di persone sull’erba del Velodromo.



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