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Paul Weller – Stanley Road

stanley_rd_wellerStanley Road venne pubblicato questo stesso giorno di venti anni fa, in piena british reinassance (o britpop, se preferite).

Paul Weller avrebbe voluto intitolarlo Shit Or Bust: aveva iniziato gli anni ’90 da sconosciuto (nonostante i successi con i Jam e gli Style Council), aveva piano piano ritrovato la sua vitalità suonando nell’anonimato dei club, aveva rotto il ghiaccio con l’eponimo debutto solista (1992) e Wild Wood (1993) gli era valso il plauso della critica e del pubblico.

All’improvviso però una nuova generazione di band si era affacciata sulla scena, gente che la stampa aveva fatto subito assurgere a portabandiera di una sorta di rinascita britannica, in aperta contrapposizione con il grunge che – partito dalla remota provincia USA – aveva conquistato le classifiche di tutto il mondo e poco contava, per le vendite, che si trattasse di qualcosa di originale (i Nirvana) o di più artificioso (tutti gli altri gruppi fatti saltare sul carrozzone).

Insomma, l’Inghilterra era alla disperata ricerca di un antidoto: Madchester non era (stata) abbastanza, lo shoegaze di inizio decennio era poco più che culto (Ride, My Bloody Valentine, Swervedriver, Slowdive: tutta gloria postuma o quasi), i Blur degli esordi non avevano poi un impatto così devastante, anche se Damon Albarn era già stato adottato dalla stampa specializzata come un paladino anti grunge.

Nella loro dichiarata antitesi ai fenomeni d’oltremanica, Blur, Suede, Pulp e soprattutto Oasis non guardavano agli anni ’80 ma più indietro: a Beatles, Stones, Kinks, Bowie, Who, T.Rex e fino al punk.

E non c’era in circolazione nessuno di più credibile di Weller che rappresentasse un trait d’union con quel mondo: era da lì che i suoi Jam, dal 1977 al 1982 avevano pescato, rivitalizzando il fenomeno mod per poi implodere al cospetto del sacro fuoco del rhythm and blues. Fu così che divenne lui il padrino di questa improbabile progenie.

Mancava però la sua definitiva (ri)consacrazione, il disco che lo riportasse davvero in cima alla piramide, al centro della scena.

Il guizzo riuscì con un album graffiante e vitale, che a riascoltarlo oggi suona totalmente atemporale, lontanissimo dal suono di metà anni ’90 (se proprio fosse richiesto di dargli una collocazione non sapendone nulla, probabilmente sarebbe da datare almeno vent’anni prima), che prende il nome dalla strada di Woking dove Weller è cresciuto e con un artwork confezionato (nientemeno che) da Peter Blake mettendo insieme frammenti di epoche passate (un santino di John Lennon, George Best, Wilfred Owen, il logo della Stax, l’immancabile Londra di inizio ’60).

È tra queste pieghe che risiede il più grosso equivoco legato a Stanley Road: letto da molti come un disco zeppo di nostalgia, è più che altro un viaggio introspettivo, folgorante e dal groove irresistibile.

Weller mette in musica la sua disillusione nei confronti della fama (Porcelain Gods) – qualcosa di ancora sconosciuto alle nuove leve del rock britannico -, dubbi e ansie di un uomo di 37 anni già parte della storia ma sempre in bilico (The Chaingingman).

Tratteggia quella che ad oggi è la sua più potente torch song (You Do Something To Me – complice la fresca rottura con la vocalist Dee C Lee), dà voce ad un atavico senso di smarrimento impreziosendo Broken Stones con il Fender Rhodes dell’amico di sempre Mick Talbot, si permette di impaludarsi nel ritmo di Dr. John ripescando la sua I Walk On Glided Splinters con la complicità di Noel Gallagher, scrive una sorta di Sliding Doors almeno un paio d’anni prima del film che conosciamo (Time Passes) e sì, si lascia andare a qualche ricordo d’infanzia (Pink On White Walls); chiude con Wings On Speed, un’elegia pianistica e gospel degna del miglior McCartney.

In Stanley Road Weller è completamente preda della propria musa, che lo porta lontano da quelli stilemi jazzati adottati dagli Style Council e che impregnano soprattutto il suo debutto solista e di cui ancora c’è traccia in Wild Wood.

Imbraccia la chitarra e lo fa spesso in modo ruvido e scostante, creando un’amalgama corposa e calda che si muove su territori soul grazie al pulsare del basso (al suo massimo splendore nella già citata Broken Stones) e al volteggiare dell’organo (ospite anche Steve Winwood). Ogni tanto spegne la luce e si ritrova solo, voce e pianoforte e poco più.

Questo album rimane il migliore lavoro del Weller solista per profondità, intenti, abilità nella scrittura; da Stanley Road ci saranno alti (molti) e bassi (pochi), ma il suo status di Modfaher non sarà mai messo in discussione.

E se qualcuno dovesse mai chiedervi chi è Paul Weller fategli ascoltare Stanley Road, senza svelare che ha vent’anni oggi: la risposta sta tutta qui.

N.b.: Broken Stones è tra i nostri 35 riff di basso preferiti.

2 comments on “Paul Weller – Stanley Road

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