Paul Weller ha costruito True Meanings intorno ad una singola canzone, Gravity.
Si tratta di un pugnetto di minuti evocativi, elegiaci, fatti di fingerpicking, archi e voce in primissimo piano; una meditazione dolce che sembra un carillon e contemporaneamente amara come una perdita, alla quale ha trovato una casa che suona interamente come una miniatura in movimento.
«Non è una nuova direzione, è solo un altro disco», dice lui, pur ammettendo di essere stato spinto verso questo corso acustico dall’apprezzamento ricevuto per The Ballad Of Jimmy McCabe (sulla colonna sonora di Jawbone) e dal fatto di aver compreso che l’età – sono sessanta tondi – porti con sé un necessario momento di riflessione («va bene, per un attimo. Poi basta perché non ha senso»).
Ma True Meanings non pare anni luce distante dall’ultimo A Kind Revolution: è privo del suo impeto r&b, ma approfondisce il mood contemplativo ed esistenzialista di brani come The Cranes Are Back e Long Long Road, aprendosi per la prima volta a scrittura di altri. Un album tanto essenziale non si sentiva da Heliocentric, ma oggi Weller è decisamente più ispirato (e saggio) di diciott’anni or sono.
Il risultato è carico di esistenzialismo e l’effetto è quello di trovarsi faccia a faccia con lui, nella stessa stanza a condividere riflessioni sulla mortalità (il disco è dedicato all’amato padre John: «I miss u mate but I know you ain’t far»), sul significato di tutto (questionandone l’esistenza), persino sull’ex “nemico” Bowie.
True Meanings è un libro di testo sull’arte di scrivere canzoni, nella forma (quasi) più primordiale; ma per essere apprezzato nel profondo richiede impegno, molta empatia ed impone di accettare – anche solo per un attimo – che il meglio potrebbe essere passato e che il fuoco si stia affievolendo.
Paul Weller ha costruito True Meanings intorno ad una singola canzone, Gravity.
Si tratta di un pugnetto di minuti evocativi, elegiaci, fatti di fingerpicking, archi e voce in primissimo piano; una meditazione dolce che sembra un carillon e contemporaneamente amara come una perdita, alla quale ha trovato una casa che suona interamente come una miniatura in movimento.
«Non è una nuova direzione, è solo un altro disco», dice lui, pur ammettendo di essere stato spinto verso questo corso acustico dall’apprezzamento ricevuto per The Ballad Of Jimmy McCabe (sulla colonna sonora di Jawbone) e dal fatto di aver compreso che l’età – sono sessanta tondi – porti con sé un necessario momento di riflessione («va bene, per un attimo. Poi basta perché non ha senso»).
Ma True Meanings non pare anni luce distante dall’ultimo A Kind Revolution: è privo del suo impeto r&b, ma approfondisce il mood contemplativo ed esistenzialista di brani come The Cranes Are Back e Long Long Road, aprendosi per la prima volta a scrittura di altri. Un album tanto essenziale non si sentiva da Heliocentric, ma oggi Weller è decisamente più ispirato (e saggio) di diciott’anni or sono.
Il risultato è carico di esistenzialismo e l’effetto è quello di trovarsi faccia a faccia con lui, nella stessa stanza a condividere riflessioni sulla mortalità (il disco è dedicato all’amato padre John: «I miss u mate but I know you ain’t far»), sul significato di tutto (questionandone l’esistenza), persino sull’ex “nemico” Bowie.
True Meanings è un libro di testo sull’arte di scrivere canzoni, nella forma (quasi) più primordiale; ma per essere apprezzato nel profondo richiede impegno, molta empatia ed impone di accettare – anche solo per un attimo – che il meglio potrebbe essere passato e che il fuoco si stia affievolendo.