Appunti

Pink Floyd: Their Mortal Remains

All’uscita da Their Mortal Remains – in un tranquillissimo sabato mattina romano, che volge pigramente verso il pranzo – almeno un paio di pensieri ronzano per la testa.

Il primo è facile ma spesso dimenticato: esistono quattro epoche dei Pink Floyd e questa mostra lo rende ancora più chiaro.

La più antica si chiude con l’addio a Syd Barrett e praticamente produce “solo” The Piper At The Gates Of Dawn, cioè il loro unico album che – pur non sapendone nulla di nulla – chiunque potrebbe collocare in coordinate spazio/tempo sufficientemente precise; la seconda va da A Sauceful Of Secrets a Obscured By Clouds, passando per Ummagumma, Atom Earth Mother e Meddle; la terza è il salto nell’iperspazio e nella gloria di The Dark Side Of The Moon, Wish You Were Here, Animals, The Wall e The Final Cut, e in queste due ultime esperienze nasce il seme della discordia che porterà Roger Waters ad abbandonare il gruppo; da lì in poi l’era Gilmour (e, via via, dei superstiti) cioè quella di A Momentary Lapse Of Reason, The Division Bell e dell’ultimo (triste) The Endless River, ma anche della reunion al Live Aid del 2005.

L’altro pensiero va circa così: cosa sono i Pink Floyd per l’Italia? Forse soprattutto gli ultimi due periodi, o ancora meno: The Dark Side Of The Moon, The Wall e quei tour incredibili a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90 (Venezia compresa).

L’idea che il loro tempo più remoto, quello precedente alla gloria planetaria e certamente più esotico, si sia perso da qualche parte nella memoria collettiva del bel paese (ammesso e non concesso che ci sia mai stato, nonostante Michelangelo Antonioni, nonostante Pompei e le loro molte scorribande quaggiù) non so bene da dove trae origine.

È una sensazione, forse retaggio quell’amico del liceo che mi introdusse al loro suono attraverso – appunto – The Dark Side Of The Moon, The Wall, il video di Learining To Fy, le due enormi statue l’una di fronte all’altra e Marooned, una chitarra sulla quale lui tentava di imparare Wish You Were Here e live tipo Pulse.

Però dev’esserci un fondo di verità dato che comunque si era troppo piccoli e si viveva ancora principalmente dei gusti dei genitori e – per passare dal particolare all’universale – la teatralità che ad un certo punto s’impadronì delle opere dei Pink Floyd (parto della mente sconvolta di Waters, certo), si attagliava perfettamente alla sensibilità italica, per la stessa ragione per cui almeno un paio di nostre generazioni svilupparono una insana attrazione per il progressive (e per i Genesis in particolare).

La conclusione è che, in quel periodo, i Pink Floyd riuscirono ad essere una cosa enorme anche da noi esattamente come nel resto del mondo, il che è raro. Ma, per contro, forse quaggiù non abbiamo bene idea di cosa siano stati in grado di combinare prima di The Dark Side Of The Moon: stanno lì i loro esperimenti più interessanti e spontanei (e pure meno scenografici, ma che richiedono comunque una certa attenzione).

Their Mortal Remains traccia un arco lunghissimo e affascinante, stimola la curiosità ed il dibattito tra amici (noi s’è andati avanti quasi fino a domenica sera); vedrete cose mai viste (ad esempio, da vicinissimo, tutti gli aggeggi che usavano sul palco ed in studio), ascolterete il loro stesso racconto (i video: fortunatamente brevi ma intensi), vi troverete a tu per tu con i pupazzoni mostruosi di The Wall e con il lavoro immenso di quelli a cui toccò tramutare il show le loro idee folli. E sì, se ce ne fosse bisogno, riscoprirete che razza di band fossero prima.

The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains è curata dal solito, eccelso, Victoria & Albert Museum e monopolizzerà il Macro di Roma fino all’1 luglio prossimo. Vale il prezzo del biglietto + quello del treno + il soggiorno a Roma per tutto il tempo che vi serve per riprendervi.