Da ragazzini appena pubescenti nessuno di noi aveva nemmeno una vaga idea di cosa fossero i rave, della jilted generation o del significato di Trainspotting.
Per noi i Prodigy erano quei tizi che MTV mandava in onda in versione censurata – dei debosciati, evidentemente! – vestiti come una gang di motociclisti perversi che si era appena scontrata con un autobus zeppo di punk, schiacciando nel mezzo It il clown appena risalito dalle fogne. E quindi sì, un po’ ci facevano cagare sotto.
Ma in quella primavera del 1997 – e poi lungo l’estate – il loro suono arrivò potentissimo: ci urlavamo in faccia l’un l’altro «FIRESTARTER!» come una specie di grido di battaglia, da cazzari esaltati. Il messaggio l’avremmo capito solo più tardi ma il danno era fatto.
E notammo anche che alle feste Smack My Bitch Up era l’unica cosa che metteva d’accordo più o meno tutti: dalle ragazzine fresche di makeup virginale (anzi: per qualcuna di loro era persino “troppo“), passando per i comuni sfigati, fino ai secchioni in perenne overdose di deodorante (semmai fossero stati invitati). Tanto bastava saltare su e giù come indemoniati, cercare di mostrarsi aggraziati non serviva.
Quel disco che avevamo iniziato a passarci in infinite cassette pirata ci aveva colpito come un meteorite e aveva portato all’estinzione la nostra innocenza zuccherina: la copertina richiamava paradisi caldi e lontani, ma suonava spaventoso – e a quardarlo meglio, poi, quel granchio in posa ninja era assai poco rassicurante.
Da allora The Fat Of The Land è invecchiato molto meglio di alcuni suoi coevi più edulcorarti. Fa ancora lo stesso effetto: è feroce, dissoluto, nervoso, e suonarlo vuol dire ficcarsi volontariamente in un universo di dinamiche violente, cavernose e tribali, ma anche incredibilmente accessibili.
In cuffia per un’ora scarsa vale un’intera notte ad un rave e senza calarsi nulla, esattamente come vent’anni prima Never Mind The Bollocks aveva rappresentato l’esperienza fisicamente più prossima allo sputare in faccia ai genitori e distruggere a mazzate il loro salotto buono anche per chi non si era mai sognato di farlo – o non lo fece mai – davvero.
I Prodigy di The Fat Of The Land sono i Sex Pistols degli anni ’90: li accomuna una irresistibile e genuina cattiveria e a posteriori hanno avuto lo stesso impatto. Sono stati i primi capelli tinti che abbiamo visto, le prime pose sfacciate, i primi piercing in alta rotazione.
Tracce come Smack My Bitch Up,Firestarter, Fuel My Fire, Serial Thrilla, Diesel Power riportarono a zero la distanza tra il rock’n’roll e il mondo della dance –all under one roof raving – oggi ancora sfidano e minacciano ogni convenzione su cosa possa essere considerato davvero estremo.
E sono vent’anni abbondanti che aspettiamo qualcosa che possa essere anche lontanamente paragonabile a questo album ed al suo impatto.
Da ragazzini appena pubescenti nessuno di noi aveva nemmeno una vaga idea di cosa fossero i rave, della jilted generation o del significato di Trainspotting.
Per noi i Prodigy erano quei tizi che MTV mandava in onda in versione censurata – dei debosciati, evidentemente! – vestiti come una gang di motociclisti perversi che si era appena scontrata con un autobus zeppo di punk, schiacciando nel mezzo It il clown appena risalito dalle fogne. E quindi sì, un po’ ci facevano cagare sotto.
Ma in quella primavera del 1997 – e poi lungo l’estate – il loro suono arrivò potentissimo: ci urlavamo in faccia l’un l’altro «FIRESTARTER!» come una specie di grido di battaglia, da cazzari esaltati. Il messaggio l’avremmo capito solo più tardi ma il danno era fatto.
E notammo anche che alle feste Smack My Bitch Up era l’unica cosa che metteva d’accordo più o meno tutti: dalle ragazzine fresche di makeup virginale (anzi: per qualcuna di loro era persino “troppo“), passando per i comuni sfigati, fino ai secchioni in perenne overdose di deodorante (semmai fossero stati invitati). Tanto bastava saltare su e giù come indemoniati, cercare di mostrarsi aggraziati non serviva.
Quel disco che avevamo iniziato a passarci in infinite cassette pirata ci aveva colpito come un meteorite e aveva portato all’estinzione la nostra innocenza zuccherina: la copertina richiamava paradisi caldi e lontani, ma suonava spaventoso – e a quardarlo meglio, poi, quel granchio in posa ninja era assai poco rassicurante.
Da allora The Fat Of The Land è invecchiato molto meglio di alcuni suoi coevi più edulcorarti. Fa ancora lo stesso effetto: è feroce, dissoluto, nervoso, e suonarlo vuol dire ficcarsi volontariamente in un universo di dinamiche violente, cavernose e tribali, ma anche incredibilmente accessibili.
In cuffia per un’ora scarsa vale un’intera notte ad un rave e senza calarsi nulla, esattamente come vent’anni prima Never Mind The Bollocks aveva rappresentato l’esperienza fisicamente più prossima allo sputare in faccia ai genitori e distruggere a mazzate il loro salotto buono anche per chi non si era mai sognato di farlo – o non lo fece mai – davvero.
I Prodigy di The Fat Of The Land sono i Sex Pistols degli anni ’90: li accomuna una irresistibile e genuina cattiveria e a posteriori hanno avuto lo stesso impatto. Sono stati i primi capelli tinti che abbiamo visto, le prime pose sfacciate, i primi piercing in alta rotazione.
Tracce come Smack My Bitch Up, Firestarter, Fuel My Fire, Serial Thrilla, Diesel Power riportarono a zero la distanza tra il rock’n’roll e il mondo della dance – all under one roof raving – oggi ancora sfidano e minacciano ogni convenzione su cosa possa essere considerato davvero estremo.
E sono vent’anni abbondanti che aspettiamo qualcosa che possa essere anche lontanamente paragonabile a questo album ed al suo impatto.