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Red Hot Chili Peppers – Californication

RHCP_californicationCalifornication è stato l’ultimo grande album degli anni ’90. Non necessariamente per qualità (molto alta: diciamolo subito), ma per l’impatto. Ve lo ricordate?

I Red Hot Chili Peppers erano ovunque, avevano invaso la tv, le radio, ogni cosa; era praticamente impossibile muovere un passo senza ascoltare per la centesima volta quelle canzoni, fosse il supermercato, un ingorgo stradale, il Festivalbar o un servizio al telegiornale: senza bisogno di tendere l’orecchio, era un’invasione.

E noi tutti quindicenni probabilmente sentivamo per la prima volta questa strana storia del chitarrista che si chiamava (quasi) come il protagonista del libro di Stefano Benni: una specie di profeta, uno che se n’era andato e ora era tornato per portare la sua band (un matto con i capelli azzurri, una specie di surfista californiano ipertatuato e un tamarrissmo batterista dalle sembianze di un camionista) nelle nostre case e in cima al mondo; a cantare della California, di abissi, sconcezze, anime sporche, falò sulla spiaggia e amicizie sopravvissute, di un mondo stranissimo in cui il cielo rosso fuoco poggiava chiuso in piscina, sostituito in alto da un minaccioso Oceano blu.

E dei puristi, degli snob, di quelli che i veri Chili Peppers sono morti con Hillel Slovak, quelli che questa è merda, io c’ero ai tempi di Blood Sugar Sex Magic, la verità sta lì (non inesatto) – non ce ne fregava un cazzo, era estate e presto l’invasione (dei RHCP) si sarebbe trasformata in adesione (nostra), quindi molto più di una conquista.

Con la produzione di Rick Rubin e un grosso investimento della Warner alle spalle (la storia del figliol prodigo era proprio quello che serviva per ravvivare un mito di inizio decennio), il primo singolo del lotto venne pubblicato nel maggio del ‘99 (Scar Tissue) e l’ondata non si esaurì che alla fine dell’anno successivo. Una cosa quasi impensabile nel rock’n’roll odierno.

Tralasciando tutto questo, Californication è – anche oggi – un viaggio sensazionale. Spiritualmente, i Red Hot Chili Peppers si riappropriano di quello che era stato interrotto nel tour giapponese del 1992 con la dipartita di Frusciante: chiudono il cerchio riacchiappando la sua vena melodica, tappando quella dell’eroina; scrivono, a quasi vent’anni dal loro esordio, qualcosa di prepotentemente consono alla svolta del millennio – fuggendo il rischio di ritrovarsi, dopo così tanto tempo e dopo il passo falso di One Hot Minute, del tutto inadeguati.

La linfa della loro ritrovata fratellanza scorre attraverso questo disco, liscia sui tre assoli di Scar Tissue, trabocca dalle carezze melliflue della title track, dal poderoso wah-wah di Get On Top (l’ispirazione? Frusciante ha risposto: i Public Enemy), nell’inestricabile ritmica di All Around The World, persino nel namecheking (Purple Stain, This Velvet Glove); sullo sfondo, una west coast tanto evocativa quanto ingannevole (space may be the final frontier, but it’s made in a Hollywood basement), un posto costruito attorno ai sogni (everybody’s been there but I don’t mean on vacation), ma zeppo di tentazioni infernali (John says to live above hell, ma anche hardcore, soft porn).

È vero che Californication è un album impregnato di melodia come mai prima nella storia dei RHCP: è perché nasce dalla scrittura di canzoni, non (solo) da jam session; è perché la produzione di Rick Rubin lascia libero sfogo alle fantasie di Frusciante, bilanciando certe ispirazioni quasi classic rock con ritrovate propulsioni funk, facendo chiarezza nei suoni e tirando fuori il massimo dalla voce di Kiedis (qui al suo meglio).

15 milioni di copie vendute (ancora una volta e ad otto anni di distanza) non sono un caso, insomma; ma è la ritrovata dei RHCP a fare la differenza, ad insinuarsi nell’organismo (nostro e loro) come una botta di ossigeno dopo tanto veleno, come l’estate che sboccia dopo tanta fatica.

3 comments on “Red Hot Chili Peppers – Californication

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