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Red Hot Chili Peppers – The Red Hot Chili Peppers

red_hot_chili_peppers_album«Ricordo che un giorno incontrammo il tizio che poi ci fece firmare per la Enigma/EMI, Jamie Cohen, e di avergli urlato in faccia quella canzone dei Sex Pistols, EMI. Mi fece un gran sorriso di circostanza e mi strinse la mano: realizzai in quel momento che avremmo fatto un disco, fu scioccante»: così il sempre misurato Flea ricorda uno dei momenti chiave della storia dei Red Hot Chili Peppers.

Nel 1982 lui, Anthony Kiedis, Hillel Slovak e Jack Irons erano sostanzialmente un gruppo di matti in perenne stato adrenalinico, che però avevano iniziato a godere di un’ottima fama di party freaks nei sobborghi di L.A. (sempre secondo la ricostruzione di Flea, «perché ribaltavamo i locali fino all’alba e strusciavamo i nostri corpi con i corpi dell’élite più underground di Hollywood») e nemmeno infilarli in uno studio di registrazione sotto la supervisione di Andy Gill – leggendario chitarrista dei Gang Of Four – servì a rendere le cose un minimo più serie.

Il fatto che i RHCP (troppo sguinzagliati) e il loro primo produttore (troppo inglese) non si siano mai presi è cosa nota e spiega almeno in parte il fatto che – a detta dei diretti interessati in primisThe Red Hot Chili Peppers sostanzialmente fallì nel catturare il suono che ci si aspettava.

L’altra ragione è che al momento di registrare, Slovak e Irons preferirono mollare, inaugurando così la lunga serie di addii (anche tragici) e clamorosi ritorni che ha da sempre caratterizzato i Chili Peppers.

Insomma questo debutto datato 1984 rappresenta più che altro ciò che Flea e Kiedis riuscirono a mettere insieme con i rimpiazzi Cliff Martinez (batteria) e Jack Sherman (chitarra); la ristampa di The Red Hot Chili Peppers pubblicata nel 2002 offre un piccolo scorcio di ciò che avrebbero potuto ottenere con il contributo di Slovak e Irons (e probabilmente di un produttore diverso da quello scelto): le demo di brani come Get Up And Jump, Out In L.A., Green Heaven anticipano il suono che i RHCP (ri)troveranno in Freaky Styley con l’aiuto di George Clinton e – guarda caso – il rientro almeno di Slovak (l’unico album in cui i quattro, quindi anche Irons, riuscirono a suonare insieme rimane The Uplift Mofo Party Plan).

Tutto quanto raccontato fin qui non sposta di una virgola il fatto che riascoltare oggi The Red Hot Chili Peppers è un’esperienza paragonabile al trovarsi davanti a delle pitture rupestri – e non c’entra il tempo, il fatto che sia passata quasi un’era geologica da allora. C’entra il fatto che come quei segni incisi sulla pietra questi brani sono scarni, diretti, essenziali. In una parola: primordiali. E non sono equivocabili.

Portano, anch’essi, ad un immaginario immediatamente identificabile: in questo caso si tratta di una Los Angeles in egual parte graffittara, glam, accattona e glamour; una giungla urbana e sociale vividissima che aveva nutrito le menti, i corpi e gli stravizi dei giovani Chili Peppers e animato nel loro avventure.

The Red Hot Chili Peppers è schizzato ed ossessivo. Difficilissimo trovare qualcosa che suoni ancora oggi allo stesso modo, nella discografia della band o altrove. C’è dentro James Brown, ci sono dentro i Gang Of Four (data anche la presenza di Gill) perché le chitarre non avrebbero mai più suonato tanto angolate sui successivi album, c’è il modo di esprimersi grezzo di Kiedis, direttamente mutuato da (quello che oggi noi definiamo) l’hip-hop old school e applicato ad un intreccio sonico sostenuto dal basso di Flea, che sta in perenne agitazione.

Questo insomma è insieme il grado zero dei Red Hot Chili Peppers e, la loro essenza pulsante – quella che avrebbero poi mantenuto (o cercato di mantenere) con alterne fortune nei successivi decenni.

Menzione speciale per la strepitosa copertina curata da Gary Panter, il cui stile ha definito l’intera iconografia underground della città degli angeli.

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