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Rocket Juice & The Moon – Rocket Juice & The Moon

Ci sono un inglese, un nigeriano e un californiano.

Oppure: ci sono un genio della melodia e polistrumentista, uno dei batteristi migliori della storia e un bassista funky con un’epopea junk alle spalle.

E c’è un mondo senza distanze se non economiche.

C’è uno studio di registrazione, e ci sono persone che vanno e vengono, che lasciano la porta aperta e una traccia di sé sul nastro.

C’è il funky, c’è l’hip hop, c’è l’elettronica cheap, il basso gommoso e suburbano, c’è la sezione di fiati psichedelici, c’è il soul, c’è l’Africa.

E poi c’è quel ritmo lì. Quello che Tony Allen, a 72 anni, è ancora il migliore a creare. Quello dell’afrobeat, costruito sul rullante nevrotico, sulla poliritmia da cardiopalma, su una giungla di tocchi che sembrano non avere davvero una direzione.

Rocket Juice And The Moon è così: una scheggia impazzita, prendere o lasciare. Damon Albarn ci mette del suo, oltre la straordinaria capacità creativa gli vanno attribuite tutti i sintetizzatori e le tastierine che farciscono le pulsazioni del basso di Flea e le architetture africane di Allen. Si espone poco: la sua Poison sembra non c’entri nulla, e invece è un altro fulgido esempio di melodia pop cristallina lanciato lì nel mezzo di un disco che fa del groove il suo momento fondante.

Erykah Badu impreziosisce Hey, Shooter da vera regina; la Hypnotic Brass Ensemble satura di psichedelia ogni spazio, gli altri ospiti portano in dono le melodie del continente nero (Fatoumata Diawara e Cheick Tidiane dal Mali, M.Anifest il suo rap Ghanese).

Il limite, se c’è, è che questi 52′ sembrano più che altro una jam. Ma forse questo è il vero colpo di genio: i suoni e nient’altro, come minimo comun denominatore di universi geograficamente lontani, di vecchiaie diverse. Un unico riverbero che unisce Nassau, Londra e Los Angeles: one Earth under a groove.

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