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Rolling Blackouts Coastal Fever – Sideways To New Italy

New Italy è un posto sperduto e probabilmente abbastanza bizzarro, a poco meno di 700km a nord di Sidney.

Nacque nel 1883 come nuovo insediamento concesso dal governo australiano ad alcune famiglie di Venezia e dintorni che avevano pensato bene di dar retta al Marchese De Rays – francese disilluso alla ricerca di un’alternativa al regno della madrepatria – salvo ritrovarsi (letteralmente) in mezzo al nulla.

Quando si trattò di costruire qualcosa, i coloni tirarono su quel posto conferendogli lo stile di casa, architettonicamente ed esteticamente (riproduzioni di statue neoclassiche comprese).

È da lì che viene Marcel Tussie, batterista dei Rolling Blackouts Coastal Fever, ed è lì che è tornato dopo il primo vero giro del mondo con la sua band.

E la prospettiva di Sideways To New Italy è appunto quella del ritorno: non in senso necessariamente confortevole, quanto piuttosto il fatto di essere stati via così a lungo da non trovarsi più in sintonia con le proprie radici. O quantomeno quella strana sensazione che si prova nel riapprodare in un posto familiare, ma con il quale ci si rende conto di non essere più al passo. Il fatto di non essere più nel loop e di faticare per rientrarci, ecco.

D’altra parte capita a molti: studenti fuori sede, famiglie o amici storici tra loro lontani per un motivo o l’altro.

Ma i Rolling Blackouts Coastal Fever hanno girato il mondo con Hope Downs e poi sono riapprodati in un posto molto peculiare – l’Australia – che già di per sé amplifica le distanze e rende i confini una specie di miraggio.

Quel continente è una sorta di cassa di risonanza infinita, che espande la sensazione di smarrimento ben oltre i 40′ del disco che ci troviamo di fronte.

Più in generale, Sideways To New Italy è un album che prosegue con tutto quanto di buono (anche ottimo) i RBCF hanno sfoggiato sin qui.

Si potrebbe eccepire che non aggiunge nulla di nuovo, perché la formula è la stessa di Hope Downs e indietro fino agli ep The French Press e Talk Tight: un intreccio di tre voci, e tre chitarre che oscillano spigolose e squillanti, con la sezione ritmica ad amalgamare e creare densità; melodie esuberanti e testi che spingono verso una complessa malinconia.

Però, davvero, nemmeno vale la pena di addentrarsi in un discorso del genere: da un lato, infatti, è evidente che i Rolling Blackouts Coastal Fever non sono una band per chi desidera un suono diverso ad ogni uscita; dall’altro lato, visto come girano le cose in questo nuovo millennio, è un gran bene che (finora) non abbiano tentato di introdurre nel loro sound tessiture sintetiche/elettroniche.

Quindi lunga vita ai Rolling Blackouts Coastal Fever, alle loro narrazioni malinconiche ed alla loro amalgama incredibilmente fluida. Non stanca.