Dischi

Slowdive – Pygmalion

NME appioppò a Pygmalion un ingeneroso 5, lamentando il fatto che gli Slowdive avessero completamente perso la bussola in termini di songwriting e si fossero lasciati trascinare in giro chissà dove dal fantasma di Brian Eno; sottintendeva (nemmeno troppo velatamente) che il problema di questa nuova creazione della band di Reading stesse nel fatto di non avere nulla di radiofonico o di commerciabile, e quindi l’idea che un buon album – per essere tale – dovesse anzitutto incontrare i gusti del pubblico.

Una cosa della quale gli Slowdive non si erano mai preoccupati, ma nel 1995 tutta l’attenzione era concentrata sul britpop (e l’autore di quella recensione, John Harris, nel tempo si rivelerà un grosso sostenitore di quel “movimento”).

Meravigliosamente fuori tempo, ignorato tanto da portare la band allo scioglimento, Pygmalion è un bozzolo narcotico fatto di ripetizioni, oscillazioni, esplorazioni sensoriali. Muove da Souvlaki Space Station – che rompeva in due il precedente Souvlaki – e ne espande i confini fino ad inghiottire ogni cosa.

Harris, in un certo senso, aveva ragione: non c’è niente di immediato o di facile, le canzoni vanno cercate sotto la superficie di questo suono ondeggiante che pare più una deviazione del coevo post-rock e che volutamente recide ogni legame con l’ormai lontano Just For A Day.

Dai 10′ iniziali di Rutti, gli Slowdive suggeriscono la loro personalissima idea di altrove: è un accenno, sussurrato come una preghiera pagana (Cello); è un’apertura melodica ed improvvisa (Blue Skied An’ Clear); è una nenia armonica che richiama certe inflessioni degli Spacemen 3 (Crazy For You), o un delay che guida tra suoni concreti (Trellisaze), è uno scavo acustico (J’s HeavenVisions Of La, All Of Us) o un collage di voci spettrali (Miranda).

È un posto tanto inquieto quanto affascinante, dinamico pur se privo di pulsazioni, e bisogna fare i conti con questo fatto: nel suo essere terrore ed insieme dolcezza, nel suo ondeggiare sonoro apparentemente senza meta, Pygmalion – oggetto di un culto microscopio, ma vero capolavoro visionario degli anni ’90 (decennio al quale non è mai appartenuto) – è un album futuristico che molti, dopo, hanno provato a rifare senza mai riuscirci.