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The Stone Roses – Second Coming

I primi minuti di Second Coming sono una sottile nebbia di feedback che sale lentamente, serpeggiando in un panorama lussureggiante fatto di acqua corrente, grossi animali che si spostano tra gli arbusti, uccelli canterini, percussioni tribali, eco sinistre, Jimmy Page (?) che sembra voler segnalare la sua presenza con un riff a caso preso da Led Zeppelin III.

Quando ne emergono, gli Stone Roses non paiono aver perso un briciolo dello swag che animava il loro debutto («listen up sweet child of mine, have I got news for you / nobody leaves this place alive, they’ll die and join the queue… I’m gonna break right into heaven, I can’t wait anymore», canta Ian Brown), eppure – da quel groove rilassato e stonato – è intuibile il peso dei cinque anni trascorsi dal loro primo album.

Ma se il suono di Breaking Into Heaven potrebbe passare per la continuazione della lunga coda di I Am The Resurrection (che chiudeva The Stone Roses), la successiva Driving South mina ogni certezza di avere a che fare con la stessa band: non più la sezione ritmica in primo piano, ma la chitarra di John Squire che guarda al blues anfetaminico di Jimi Hendrix, alle funamboliche escursioni dei Cream e quelle ancora più circensi dei Led Zeppelin.

Second Coming continua così, alternando il suo attacco sonoro seventies a brani di puro stampo folk (Your Star Will Shine il più riuscito), lontanissimo da The Stone Roses e decisamente più vicino – per l’appunto – a Led Zeppelin III, e porterà i Roses alla rovina: «abbiamo fatto il nostro album anni ’60, quello ’70, non abbiamo avuto il tempo di fare quello anni ’80», dirà Ian Brown.

In realtà il fattore tempo giocò un ruolo fondamentale: nel 1993 gli Stone Roses uscirono vincenti ma distrutti dalla battaglia legale da loro stessi intrapresa per liberarsi dal contratto con la Silvertone, che aveva pubblicato il loro debutto (e che tenterà di vendicarsi tempo dopo mettendo sul mercato il pessimo Garage Flower).

Quando finalmente iniziarono a veleggiare verso altri lidi – cioè la Geffen, che aveva promesso loro un milione di dollari a testa se si fossero accasati lì – si trovarono praticamente senza idee, persi in un infinito loop di cazzeggi e relative liti: il fatto che finalmente avessero una pila di soldi da spendere in auto, vacanze, case e lussi vari certamente non favorì la concentrazione sul tanto agognato secondo disco.

Quando finalmente fu pubblicato, il 5 dicembre 1994, l’attesa per Second Coming era ormai spasmodica ma nel frattempo era successo di tutto: nessuno più ballava alla Haçienda, il grunge era arrivato alle masse ma Kurt aveva già staccato la spina, lo shoegaze era durato giusto il tempo di lasciare il posto alla generazione di Blur e Oasis.

Insomma, nonostante l’attesa c’era il concreto rischio che nessuno più si interessasse a loro e in qualche modo così andò: dire che Second Coming non fu accolto bene è un eufemismo, dire che ha comunque poco di messianico forse è più aderente alla realtà.

Ma esistono più ragioni per rivalutarlo che per cestinarlo definitivamente.

Certo il fatto che suoni molto diverso dall’epocale predecessorenon è sufficiente a collocarlo dal lato sbagliato della storia  e nemmeno è del tutto esatto (v. Ten Storey Love Song e How Do You Sleep, che non avrebbero sfigurato sul disco d’esordio).

Breaking Into Heaven, Driving South, Daybreak e Love Spreads sono un tesoro non trascurabile: in questi brani i Roses trovarono la formula perfetta per fondere l’ispirata vena chitarristica di John Squire con il funk incandescente generato dalla sezione ritmica, senza dimenticare per un solo istante il contesto pop in cui si erano sempre mossi (e questo grazie a Brown).

Second Coming (sul quale, in una certa misura, mise le mani anche un peso massimo come John Leckie) era e rimane una visione assurda e vitale, che i Roses realizzarono a dispetto delle aspettative altrui.

La pagarono carissima: poco prima dell’inizio del tour che avrebbe dovuto portare questo disco alle masse, Alan ‘Reni’ Wren mollò le bacchette e se ne andò dopo l’ennesimo scazzo con Ian Brown; rimpiazzatolo, la band dovette rinunciata a suonare a Glastonbury perché Squire ebbe l’ottima idea di rompersi il collo correndo in bmx (al loro posto furono chiamati i Pulp, la cui performance rimane ancora leggenda); poco meno di un anno dopo, lui stesso annunciò la volontà di lasciare la band, quale «inevitabile risultato della distanza culturale e musicale cresciuta negli ultimi anni» tra lui e gli altri; rimpiazzatolo con Aziz Ibrahim, gli Stone Roses portarono in giro un penoso show fino all’autunno del 1996, quando infine si sciolsero.

Ma lunga vita a Second Coming: anche se nell’immaginario collettivo rimane fonte di tutte le loro sventure, è un grande sfoggio di coraggio e vivacità.