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The Blue Nile – High

Il quarto e più recente album dei Blue Nile risale al 2004, ma a non saperlo potrebbe essere stato pubblicato in un momento qualunque dopo l’esordio A Walk Across The Rooftops (1984) o dopo il successivo Hats (1989).

Disco dopo disco, attraverso tre decenni di  musica distillata con il contagocce, il panorama della band di Paul Buchanan è mutato impercettibilmente. O, piuttosto, è come tornare a guardare sempre lo stesso quadro, accorgendosi di un dettaglio diverso ogni volta.

Rispetto al suo predecessore Peace At Last – che accennava ad un suono più acustico – High torna sui passi di Hats e forse cerca, in qualche strano modo, di sfiorarne le vette emotive.

Pur se animato dal solito perfezionismo (prima di arrivare a questo, pare che i Blue Nile abbiano scartato almeno un altro paio di interi album) si tratta di una pretesa impossibile, ma il fatto che (se non altro) suoni come se da Hats non sia passato che un battito di ciglia è un grosso complimento.

Se c’è un punto in particolare che vale l’intero viaggio è Soul Boy: non è solo la melodia maggiormente riuscita, è anche il momento in cui la voce di Buchanan pare più vicina all’oggetto del suo desiderio.

Poco dopo (Everybody Else) il ritmo si fa vagamente più incalzante e l’ottimismo pare – per un solo attimo – prevalere sull’incertezza; ma Everybody Else scompare subito, affievolendosi nel battito distante dei Stay Close: non un’invocazione, come potrebbe sembrare in un primo momento, ma l’ennesima (dis)illusione che i Blue Nile fanno loro, forse scomparendo per sempre dagli amati tetti di Glasgow come supereroi troppo sensibili per vivere tra i comuni mortali.