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The Clash – The Clash

Alcuni definirono il 27 gennaio 1977 «the day punk died»: quel giorno i Clash firmarono un contratto da centomila sterline con la CBS, che garantì loro un anticipo di mille a testa e la possibilità di scegliere tutti gli album che desideravano dal catalogo dell’etichetta (Mick Jones si fece consegnare tutti i dischi di Bob Dylan pubblicati fino a quel momento).

Quel contratto nascondeva diverse clausole che si sarebbero presto rivelate una spina nel fianco, ma, a posteriori, si trattò del momento in cui il punk venne riconosciuto come fenomeno discografico su cui investire (nonostante tutto): vero è che i Sex Pistols avevano incendiato l’Inghilterra nella seconda metà del 1976, ma loro in quel momento erano ancora persi dietro mille problemi legati al rapporto con la EMI e Never Mind The Bollocks sarebbe arrivato solo molti mesi dopo.

E allora ecco Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Terry Chimes (accreditato come Tory Crimes) chiusi in studio a registrare il loro debutto: ad oggi The Clash, comunque la si veda, rimane il più solido album di quella stagione folle, durata appena il tempo che serve a gettare un fiammifero in un mare di benzina.

Tre weekend, tanto ci volle nonostante gli intoppi: una prima session con Guy Stevens dietro la consolle (gettata via, ma il sodalizio era solo rimandato), la ricerca di un batterista (Chimes aveva mollato la band a dicembre e accettò di registrare solo dopo molte insistenze), l’assoluta inesperienza in studio (la chitarra ritmica di Strummer, maltrattata anche mentre registrava le sue parti vocali, fu infine tenuta bassissima nel mix), l’inevitabile manifestarsi dello scontro generazionale tra la band (desiderosa che il disco suonasse come Live At Max’s Kansas City dei Velvet Underground, pretendendo di essere presa sul serio) e il personale mandato dalla CBS (un branco di hippie, agli occhi di quei ragazzi); Mick Jones dirà di non ricordarsi neppure di aver registrato questo disco, ma in quell’occasione ebbe il primo utilissimo assaggio delle potenzialità di uno studio di registrazione.

The Clash saltella sulle macerie della swinging London del decennio precedente, rimbalzando sul grigiore sociopolitico della capitale di fine anni ’70.

Colpisce forte con le ritmiche incessanti, con il groove indomito del basso (sorprendente, considerato che Simonon aveva appena imparato a suonarlo), il che lo differenzia da ogni altra produzione del periodo; e poi la chitarra di Jones, che se ascoltata attentamente è piuttosto raffinata: certo Keith Richards, ma anche Mott The Hoople, New York Dolls e un sacco di glam rock: i Clash dichiaravano di voler far piazza pulita, ma il loro suono rivelava l’esatto opposto (e d’altra parte Career Opportunities non è forse una Gimme Some Lovin’ anabolizzata?).

Da questo punto di vista, The Clash è zeppo di melodie killer e slogan situazionisti: una capacità di sintesi ed una orecchiabilità che si riveleranno elementi decisivi nel successo della band.

Forse l’estetica del debutto dei Clash non è chiarissima, e andrà via via affinandosi (un percorso abbastanza travagliato, che passerà anche per Give ‘Em Enough Rope), ma il messaggio sì; nei suoi articoli per il New Musical Express datati dicembre 1977, quando era a seguito di uno degli infiniti tour della band, Lester Bangs lo colse in pieno (pur se nel suo tipico stile gonzo):

È un po’ difficile tradurlo in parole per i comuni mortali, ma credo di dover dire che essere giusti significa più o meno stare dalla stessa parte degli angeli e ingaggiare la battaglia campale per la vittoria definitiva delle forze del Bene sul Regno della Morte (vedete che qui ci avviciniamo pericolosamente al terreno hippy?), lavorando per illuminare gli altri sulle loro possibilità, piuttosto che limitarsi a stare stravaccati nel fango e sbraitare che tutto è una barba.

Il menestrello giusto piò anche esprimere molte lamentale e critiche sull’ordine costituito ma, benché non abbia un programma coerente di mutamente sociale, è pervaso di speranza. Gli MC5 erano dei giusti, mentre gli Stooges no. Il terzo ed il quarto disco dei Velvet Underground erano giusti, il primo e il secondo no. (Inutile dire che Lou Reed non è un giusto.) Patti Smith ha fatto parte dei giusti. Gli Stones si sono baloccati con l’idea della giustizia (ad esempio in “Salt of the Earth”) ma i Beatles, quando erano bravi, erano dei giusti a tutto tondo. I Sex Pistols non sono dei giusti, ma i Clash lo sono, forse più di qualsiasi altro gruppo new wave.

Il motivo per cui lo sono è che sotto il loro paesaggio sonoro teso e aspro si cela un persistente umanitarismo.*

Possiamo agilmente declinare quello che Lester Bangs definiva umanitarismo in molte sfaccettature – dal rifiuto del nichilismo alla precisa volontà di risvegliare le coscienze, dal combattere per una causa (non solo musicalmente) alla solidarietà – si tratta, sin da questo principio, del tratto che rende immortali i Clash.

Un’attitudine sociale che è la chiave di volta per comprendere la loro natura particolarissima, e – su The Clash – brani in cui Strummer critica apertamente il disinteresse dei bianchi ad attivarsi per far valere le proprie ragioni (anche con con la violenza – White Riot), lo strisciante colonialismo d’oltreoceano («never mind the stars and stripes / let’s print the Watergate Tapes / I’ll salute the new wave / and I hope nobody escapes»: I’m So Bored With The U.S.A.), o predica attenzione alle false speranze gettate dall’establishment come zuccherini in tempi atroci (Career Opportunities), senza risparmiare un briciolo di veleno a chi fingeva di non cogliere (Hate And War, Garageland); spiega anche l’inclusione – proprio all’ultimo, tra tutte le possibilità – della cover di Police & Thieves (dall’eponimo album di Junior Murvin): un brano reggae, allo stesso tempo un omaggio ai fratelli giamaicani ed una denuncia – fatta propria – della repressione violenta attuata dal sistema (notare che i poliziotti armati non sono il Paese, non rappresentano la Nazione, al contrario combattono: la frattura definitiva tra il corpo sociale e chi dovrebbe rappresentarlo).

Da ultimo, The Clash – il suo ritmo violento e contagioso, i suoi slogan astuti – è efficacissimo sketch sociologico.

 

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* Tratto dal primo dei tre articoli di Lester Bangs sui Clash, pubblicati da NME il 10, 17 e 24 dicembre ’77, li trovate in un unico scritto su Guida Ragionevole Al Frastuono Più Atroce.