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The Rolling Stones – A Bigger Bang

rolling_stones_a_bigger_bangIl ventiquattresimo album di studio dei Rolling Stones, che nel 2005 non si facevano sentire dal fiacchissimo Bridges To Babylon (1997), per quanto nient’affatto difettoso nelle convinzioni e ben deciso nei suoni, ha posto e pone alcune questioni di rilievo.

Anzitutto bisogna dare credito alla band di Jagger e Richards di essere – tutt’oggi – un vero e proprio esperimento: come quelle navette stellari lanciate nello spazio profondo e apparentemente alla deriva, che nessuno ha idea di quanto in là possano (ancora) spingersi, loro continuano a navigare spostando di anno in anno in confine un po’ più in là. E se per un artista che risponde solo a se stesso sembra più semplice (un esempio: Dylan, peraltro della medesima generazione), per un gruppo si tratta di un lungo margine del tutto indefinito.

Il punto è che A Bigger Bang dà l’impressione che gli Stones navighino tutt’altro che a vista, anagrafe a parte: e se da un lato è inevitabile (non si arriva ad essere una band così longeva per caso), dall’altro il punto è che questo album suona più che altro come una scusa per perpetrare il mito (ce n’è davvero bisogno?) e – nella pratica – proseguire nella remunerativa attività live.

Insomma, una sorta di dovere imposto più che altro dal (comprensibilissimo) desiderio di non portare in giro semplicemente se stessi, ma anche qualcosa di nuovo (forse: davvero gli Stones hanno mai suonato più di uno/due brani da A Bigger Bang? E davvero la gente se li aspetta?), o semplicemente una scusa per un altro tour, o per interrompere la lunga serie di ristampe/collezioni varie pubblicate nel frattempo (cioé per lanciare sul mercato un prodotto – apparentemente – più fresco).

Ovviamente le chiacchiere starebbero a zero se A Bigger Bang fosse validissimo, pur nell’impossibilità di replicare i fasti del passato (remoto).

Invece si tratta di un disco eccessivamente lungo (oltre un’ora), che nel complesso prosegue sulla falsariga del materiale inedito più allora recente (Don’t Stop, Stealing My Heart, Keys To Your Love, Losing My Touch, contenute nella raccolta Forty Licks del 2002; in generale, meglio Doom And Gloom e One More Shot, inediti dallo strabordante GRRR! del 2012, e ancora meglio l’intero Crosseyed Heart di Keith Richards, datato 2015).

Di sostanza ce n’è poca, di mestiere moltissimo (e ci mancherebbe); anche in questo gli Stones – forse loro malgrado – sono pionieri: come diavolo si fa a misurarsi con un passato del genere? (Va anche detto che il già menzionato Dylan pare riuscirci molto meglio, forse avvantaggiato dall’enigmaticità della sua figura e della sua musica).

Basta prendere episodi come Sweet Neo-Con – la memoria corre inevitabilmente a quando gli Stones non avevano bisogno di parolacce per produrre qualcosa di almeno socialmente rilevante (Highwire, (I Can’t Get No) Satisfaction) – Rain Fell Down, che è un’ottima idea ma forse tirata troppo a lungo, o Streets Of Love, ballatona che vorrebbe coniugare l’attualità con il passato (ma non riuscita quanto Anybody Seen My Baby?). È anche una questione di classe, come quei calciatori che cercano di supplire ai limiti dell’età entrando più duro sull’avversario.

D’altra parte, di A Bigger Bang andrebbero certamente conservate la produzione asciutta (rispetto al precedente Bridges To Babylon) e certamente la testardaggine di esserci; l’efficacia è un’altra cosa. Vedremo l’imminente futuro cosa porterà con sé, con l’innata fiducia tipica degli esploratori.