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The Velvet Underground – White Light/White Heat

Nell’ascoltare White Light/White Heat occorrerebbe avere ben chiaro che il precedente The Velvet Underground & Nico era stato concepito in circostanze singolari ed irripetibili.

Quell’album fotografava una sordida e tetra ricerca della bellezza, finanziata e stimolata da Andy Warhol che aveva persino imposto la presenza fissa di Nico. Ma aveva venduto pochissimo e Warhol – animato dalla continua rincorsa al glamour – ci era rimasto male.

Guastatisi precipitosamente i rapporti con il proprio mentore, i Velvet Underground misero in campo una reazione estrema, esclusero Nico e si chiusero nello stesso decrepito studio di registrazione di Manhattan, questa volta alla ricerca di qualcosa di assolutamente disturbante.

Whte Light/White Heat è fondamentalmente questo: una voluta, fastidiosissima profanazione di tutto ciò che i VU erano stati sino a quel momento o che avrebbero potuto essere.

Le chitarre di Lou Reed e Sterling Morrison si contorcono in ostinate cacofonie; sono rumorosissime e spesso è come ascoltare unghie sulla lavagna, tra assoli che non vanno da nessuna parte, distorsioni che evaporano tra le corde e si fondono con qualunque cosa in quel momento John Cale suoni o tenti di suonare. La voce stessa di Reed – e la seconda voce, opera di Cale – sono sepolte nel mix, Moe Tucker sembra picchiare i tamburi senza senso.

Nel caso di Sister Ray, tutto questo succede per diciassette ossessivi e disturbanti minuti, totalmente improvvisati e senza scampo (e tra i molti che ci rimasero sotto vale la pena citare Howard Devoto e Pete Shelley: i Buzzcocks nacquero perché i due condividevano una sfrenata passione proprio per Sister Ray); nel caso della title-track, vuol dire che un ritmo che ben potrebbe passare per qualcosa dei Beach Boys va semplicemente avanti come un treno in corsa fino a deragliare fragorosamente; su un canale, The Gift è un recital, sull’altro altro feedback (in mono ascolterete tutto appiccicato, ovviamente).

Finisce che White Light/White Heat è addirittura più situazionista del suo predecessore, molto più spontaneo e altrettanto influente: è il minimo comune denominatore di tutti coloro che da allora (siamo nel 1968) hanno tentato di ricavare qualcosa dal rumore.