Nel 1999, praticamente nessuno fuori da Detroit si accorse del debutto dei White Stripes: ci sarebbero voluti gli Strokes ed il conseguente hype generato da una nuova onda di rock’n’roll capace di intasare i primi anni zero.
A quel punto, cioè tre anni dopo, la premiata ditta Jack + Meg White aveva già alle spalle un altro disco (De Stijl) e si apprestava a pubblicarne un terzo (White Blood Cells).
John Peel comunque arrivò prima di tutti: nel 2000, la copia d’importazione di The White Stripes messa in bella mostra nel record shop del festival Eurosonic / Noorderslag, in Olanda, attirò la sua attenzione. Ascoltandoli, si rese conto di non essersi sbagliato e iniziò a suonarli nel suo programma.
Se qualcun altro avesse guardato dentro questo album avrebbe scoperto una band in egual misura eccitante ed irritante – cioè quello che i White Stripes sarebbero stati sempre, raggiungendo vette altissime in entrambi i casi – e si sarebbe reso conto di come poteva suonare il blues elettrico di Chicago trasportato 450 chilometri più ad est, a Detroit.
Cioè esattamente come sarebbe legittimo aspettarsi in una città che ha dato i natali (tra gli altri) a Mc5 e Stooges: fragoroso, esplosivo, essenziale, isterico. Con la chitarra affilata, la voce rotta e questi tamburi che fanno boom, boom… boooom!
E in più si sarebbe accorto di una band già bell’e pronta, con un’estetica definita in tutti i sensi e capace di far suonare ancora più disperata One More Cup Of Coffee di Dylan, di creare qualcosa di nuovo con riff vecchi come il mondo (Jimmy The Exploder, Screwdriver, Astro) e farla franca.
The White Stripes – come ogni disco successivo del duo – non è forse da prendere in blocco; la loro attitudine sfacciata e sanguigna, la loro immagine da bambini rimasti chiusi in un candy shop, il loro interagire equivoco, il loro essere espliciti, diretti e senza fronzoli – tutto questo si.
E chissà come sarebbe andata se fosse stato questo album ad iniziare il revival del rock’n’roll degli anni zero.
Nel 1999, praticamente nessuno fuori da Detroit si accorse del debutto dei White Stripes: ci sarebbero voluti gli Strokes ed il conseguente hype generato da una nuova onda di rock’n’roll capace di intasare i primi anni zero.
A quel punto, cioè tre anni dopo, la premiata ditta Jack + Meg White aveva già alle spalle un altro disco (De Stijl) e si apprestava a pubblicarne un terzo (White Blood Cells).
John Peel comunque arrivò prima di tutti: nel 2000, la copia d’importazione di The White Stripes messa in bella mostra nel record shop del festival Eurosonic / Noorderslag, in Olanda, attirò la sua attenzione. Ascoltandoli, si rese conto di non essersi sbagliato e iniziò a suonarli nel suo programma.
Se qualcun altro avesse guardato dentro questo album avrebbe scoperto una band in egual misura eccitante ed irritante – cioè quello che i White Stripes sarebbero stati sempre, raggiungendo vette altissime in entrambi i casi – e si sarebbe reso conto di come poteva suonare il blues elettrico di Chicago trasportato 450 chilometri più ad est, a Detroit.
Cioè esattamente come sarebbe legittimo aspettarsi in una città che ha dato i natali (tra gli altri) a Mc5 e Stooges: fragoroso, esplosivo, essenziale, isterico. Con la chitarra affilata, la voce rotta e questi tamburi che fanno boom, boom… boooom!
E in più si sarebbe accorto di una band già bell’e pronta, con un’estetica definita in tutti i sensi e capace di far suonare ancora più disperata One More Cup Of Coffee di Dylan, di creare qualcosa di nuovo con riff vecchi come il mondo (Jimmy The Exploder, Screwdriver, Astro) e farla franca.
The White Stripes – come ogni disco successivo del duo – non è forse da prendere in blocco; la loro attitudine sfacciata e sanguigna, la loro immagine da bambini rimasti chiusi in un candy shop, il loro interagire equivoco, il loro essere espliciti, diretti e senza fronzoli – tutto questo si.
E chissà come sarebbe andata se fosse stato questo album ad iniziare il revival del rock’n’roll degli anni zero.