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U2 – All That You Can’t Leave Behind

all_that_you_cant_leave_u2Nel ragionare su All That You Can’t Leave Behind bisogna tenere in conto di che razza di decennio siano stati gli anni ’90 per gli U2?

Probabilmente sì, tanto comunque questo album si presta a due metri di giudizio diversi: l’uno implica il confronto con i dischi precedenti di Bono & co., l’altro pretenderebbe di collocarlo su una scala di valori (quanto più possibile) assoluti.

E allora, va considerato che l’ultimo barlume dello scorso millennio si era aperto con Achtung Baby, cioé il primo (grandioso ed esaltante) passo degli U2 verso una specie di nuova realtà: colorata, globalizzata, tecnologica, musica per le masse pompata da un ego (ancora più) smisurato. A seguire: Zooropa e Pop, ora come allora i punti meno affascinanti della loro discografia (e, in generale – proprio a livello di valori assoluti – tendenti all’osceno, in particolare il secondo), in cui il loro songwriting veniva sporcato di trascurabile mondanità nei suoni (e in parte nelle tematiche).

Arrivato l’ottobre del 2000, All That You Can’t Leave Behind rappresenta quindi la luce in fondo al tunnel dell’egocentrismo e della magniloquenza sonora, nonostante la produzione affidata a Brian Eno e Daniel Lanois.

Messo a confronto con i suoi diretti predecessori è un album semplice e schietto, in cui certo convivono le scorie dei balordi anni ’90 (il modo di trattare la batteria in Walk On, la drum machine – efficacissima, va detto – di Beautiful Day, gli archi volutamente farlocchi di Kite, le ritmiche quasi trip hop di When I Look At The World) e momenti di semplicità disarmante (In A Little While, Wild Honey); e anche dove gli U2 si immergono nel loro suono epico, lo fanno in maniera assai efficace e godibile.

All That You Can’t Leave Behind non funziona quando approccia certe tematiche tanto care a Bono, tracimando nella retorica (sia sonora che testuale: Peace On Earth, Grace); riesce molto meglio nel racconto delle debolezze – mai esaltate, piuttosto vissute o cullate – e la splendida Stuck In A Moment You Can’t Get Out Of (una ballata soul in qualche modo ispirata al suicidio di Michael Hutchence) sta ancora lì a dimostrarlo.

Insomma: questo album (pure premiato ai Grammy Awards) è molto più godibile e concreto di Zooropa e Pop, ma rende evidente che gli anni di indiscussa gloria artistica degli U2 si sono chiusi con Achtung Baby (quelli della gratificazione commerciale, invece, più o meno proseguono).

Verrebbe da dire che un mix tra All That You Can’t Leave Behind ed il successivo How To Dismantle An Atomic Bomb (2004) avrebbe creato un corto circuito esaltante, in grado – quello si – di far gridare al miracolo se non altro per la freschezza e la ritrovata lucidità.

Osservata la copertina di questo album si nota invece quell’insegna alle spalle della band (fotografata da Anton Corbijn al terminal partenze dell’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi), un riferimento biblico a Geremia 33:3: «invocami ed io ti risponderò e t’annunzierò cose grandi ed impenetrabili, che tu non conosci» («il numero di telefono di dio», ha sempre detto Bono).

Pur invocati a lungo, gli U2 non hanno più mostrato alcuna cosa grande ed impenetrabile: da qui in poi troveranno la loro cifra esaltante nei live, nel lavoro in studio mostreranno più di qualche comprensibile crepa.

Ciò detto, rimane comunque inspiegabile l’inclusione di All That You Can’t Leave Behind al 139° posto della classifica dei migliori album di tutti i tempi stilata da Rolling Stone.